ABBIAMO RINUNCIATO A SCOMMETTERE SUL FUTURO
Come sempre al principio c’è il linguaggio. Analizzare le parole e il loro uso è il modo migliore per interpretare, e capire nel profondo, il proprio tempo e i suoi problemi. Da questo punto di vista è importante osservare cosa è accaduto nell’arco di neanche dieci anni al termine “boomer”, la contrazione linguistica di “baby boomer”. Neanche troppi anni fa, nel 2008, il sociologo Fausto Colombo pubblica un libro di successo intitolato Boom. Storia di quelli che non hanno fatto il ’68 (Rizzoli), che è vera e propria apologia di una fase della nostra storia e delle generazioni nate tra il 1946 e il 1964, in coincidenza con il boom delle nascite e del relativo sviluppo economico. Qualche anno dopo, però, dal 2018-2019, il termine “boomer” si trasforma improvvisamente in un dispregiativo attraverso una diffusione crescente e sempre più diffusa via “meme” e social. Tanto per dire, alla fine del 2019 la deputata neozelandese Chlöe Swarbrick arriva addirittura a coniare l’espressione “Ok boomer” con lo scopo di far tacere ironicamente un collega più anziano, il quale la stava interrompendo durante un intervento parlamentare. Da allora l’espressione diventa un modo di dire corrente, la risposta sarcastica che i giovani oggi usano contro i baby boomer, ritenuti anziani e fuori tempo. Il termine è ormai lo strale contro chi è nato prima e dopo il boom demografico successivo alla seconda guerra mondiale, contro cioè le generazioni che oggi hanno cinquanta, sessanta e settanta anni. Le quali, guarda caso, sono però le prime a essere cresciute a pane e mass-media, che hanno visto il primo uomo scendere sulla luna, che hanno vissuto il più lungo periodo di pace della storia occidentale, che hanno superato le limitazioni del mondo agricolo e pre-industriale dei padri, che hanno avviato la modernizzazione dei costumi. Le quali, in sintesi, hanno potuto orientare la propria esistenza sulla prospettiva, data come certa e indiscutibile, che il futuro e il domani sarebbero stati comunque migliori del passato. Il sottinteso strutturale è che lo hanno potuto fare proprio perché era oggettiva la percezione di essere nati in tanti e di sentirsi accompagnati verso un processo di sviluppo e miglioramenti. Al punto che l’accusa di essere dei boomer è come se finisse inconsciamente per contestare un periodo in cui si nasceva e si aveva fiducia nella vita.
Il rovesciamento semantico da cui siamo partiti dimostra il rovesciamento della sensazione generale di autoconsapevolezza provata dai giovani di oggi. È di questi giorni, per stare in Italia, la previsione che entro il 2034, diminuiranno di 1,4 milioni circa i bambini e ragazzi tra i tre e i diciotto anni d’età. Un calo, guardando alla scuola, di oltre 100 mila alunni l’anno. Guardando poi ai nuclei familiari singoli, il panorama sarà mediamente soprattutto di figli unici o, al massimo, di due figli a coppia di genitori. Dato che, se confrontato con lo scenario degli anni Sessanta del Novecento, appare antitetico: allora i bambini, i ragazzi, i giovani erano tantissimi, basta guardare i filmati d’epoca o tante fotografie all’uscita dalle scuole.
Più che naturale, quindi, la trasformazione dello stato d’animo. Oggi i giovani sono in minoranza, sono – anzi – “la minoranza” della popolazione ed è così in parte spiegabile la loro percezione da “cittadella assediata” dalla maggioranza dei vecchi boomers. Il fenomeno è oltretutto come un serpente che si morde la coda. Persone che avvertono il futuro come una minaccia – inutile ripetere le conseguenze della denatalità in termini di prospettive occupazionali, di welfare, di tutele, di certezze – vengono a loro volta private della capacità di affrontare con speranza e coraggio la sfida del futuro. Se in passato era naturale immaginarsi un domani prossimo sposati o comunque impegnati nella costruzione di una nuova famiglia, l’orizzonte odierno tende a ripiegare gli individui nella prospettiva di un vivere il presente come soddisfacimento dei bisogni e delle necessità immediate. Manca il più delle volte la spinta a scommettere sul futuro. Come ha spiegato papa Francesco, se nascono sempre meno bambini «questo significa impoverire il futuro di tutti, l’Italia, l’Europa e l’Occidente si stanno impoverendo di avvenire». Se lo scenario dominante fa abbassare l’asticella dell’aspettativa individuale di futuro, come ha rilevato il pontefice, si finisce per accontentarsi «di surrogati mediocri, come gli affari, la macchina, i viaggi, la custodia gelosa del tempo libero: la bellezza di una famiglia ricca di figli rischia di diventare un’utopia, un sogno difficile da realizzare».
Ovvio che non è facile invertire un fenomeno stratificato e di lungo periodo la cui origine è d’altronde databile già alla fine degli anni Settanta. Un processo che è poi stato incrementato dalle profonde trasformazioni strutturali socio-economiche degli ultimi decenni. D’altra parte non si inverte una tendenza per decreto o per decisione dall’alto. La questione è sostanzialmente di natura culturale, psicologica, filosofica, metapolitica e richiede una strategia adeguata a tutti i livelli: politico, istituzionale, mediatico, culturale, economico e sociale. Favorire, migliorare e mettere in atto politiche concrete volte a rilanciare la natalità e la famiglia non è cosa che si improvvisa con qualche decreto legge e con i tempi di una legislatura. Magari fosse così a portata di mano. Simbolicamente occorrerebbe intanto passare dal ricorso al termine di boomer come un insulto alla riscoperta della positività e della fecondità del baby boom che fu. Sarebbe necessaria una rivoluzione culturale preventiva in grado di riabituarci a saper vedere lontano, a guardare avanti, a riuscire ad affrontare la sfida del domani. In una parola, a non arrendersi di fronte a numeri che, per ora, inesorabilmente peggiorano di anno in anno. Se, come diceva Charles Péguy, disperare è la cosa più facile, la tentazione immediata, iniziamo allora a riappropriarci della speranza e del diritto alla vita.