AGENDA INFRASTRUTTURE, RITARDI DA COLMARE
Il ritorno al Governo della coalizione di centrodestra offre la concreta possibilità di ripensare l’approccio che per quasi un decennio si è affermato nella gestione del comparto delle infrastrutture. Il nuovo esecutivo si trova però ad operare in uno scenario profondamente mutato rispetto al passato. Alle criticità del settore ancora irrisolte, come la prolungata stasi degli investimenti e più in generale in generale le difficoltà nell’utilizzo delle risorse impegnate, si sono aggiunte le conseguenze della spirale inflattiva con il problema degli extra-costi che incombe sulle nuove opere.
Anche la cornice programmatica è mutata e ricomprende oggi PNRR, Piano Complementare e Fondo di sviluppo e Coesione 2021 – 2027, che si sviluppano ciascuno secondo una propria logica pluriennale con diverse scadenze. Per venire incontro a questi cambiamenti, la stazione appaltante più importante del Paese, il Gruppo FS che comprende anche Anas, ha adottato un piano industriale per pianificare gli interventi sino al 2031.
L’arco temporale in cui il Governo opererebbe è tuttavia al massimo quinquennale, pertanto lo spazio per nette cesure con il passato appare assai ristretto e sono diversi i motivi che paradossalmente si oppongono ad un radicale cambio di rotta. In particolare, è la prolungata assenza di una volontà politica caratterizzante nel comparto delle infrastrutture a favorire la rapida ricomposizione di un quadro di settore.
Il ricorso alla decretazione d’urgenza nella legislatura trascorsa da parte di tre diversi esecutivi ha portato ad una disordinata sovrapposizione di numerosi regimi giuridici, di cui però non sono ancora apprezzabili i risultati in termini di spesa, non essendo stato avviato alcun cantiere rilevante. Alla filosofia che ha ispirato il codice degli appalti del 2016, contraria a procedure accelerate per le infrastrutture strategiche, ha fatto seguito dunque un continuo ricorso alla semplificazione, che evidenzia i limiti grossolani di un impianto normativo già obsoleto e ingiustificatamente punitivo con il settore delle costruzioni.
Il nuovo Codice degli appalti licenziato dal Consiglio di Stato non arriverà prima del 2024, ciò nonostante le opere del PNRR beneficieranno comunque di ennesime corsie ad hoc che dovrebbero semplificare l’iter autorizzativo. Risulta quindi essenziale il coordinamento con i Ministeri dell’Ambiente e della Cultura, per evitare la formazione di colli di bottiglia nelle procedure di valutazioni di impatto ambientale e di autorizzazione paesaggistica. L’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del Consiglio dei ministri e del CIPE non deve essere intepretato come un’extrema ratio che limita la tutela di interessi qualificati, quanto piuttosto come l’unica vera garanzia del loro bilanciamento.
Il secondo fronte che si prospetta è quello delle progettualità. L’incapacità organizzativa delle stazioni appaltanti, insieme alle difficoltà operative del consolidamento nel settore delle costruzioni, hanno portato i tempi di progettazione a dilitarsi all’inverosimile, con risvolti poco apprezzabili anche in termini qualitativi. Una soluzione a breve termine non è purtroppo individuabile. Il settore privato potrà investire nella formazione solo se verrà assicurato il corretto fabbisogno di risorse previsto per le opere strategiche, con un cronoprogramma idoneo ad accompagnare la trasformazione del comparto, su cui grava peraltro il macigno della produttività stagnante.
Quanto al problema degli extra-costi, questo si intereccia con la probabile revisione del PNRR. Non è più rinviabile una rivalutazione complessiva del cronoprogramma, seguendo un nuovo ordine di priorità dettato dal rincaro delle materie. Con apposito decreto legge del 26 settembre il Governo ha permesso di destinare circa 8 miliardi di risorse del Piano, assegnate ma non utilizzate, per la copertura dei maggiori oneri di opere dello stesso PNRR. Per evitare il definanziamento di ulteriori opere con la stessa modalità, l’Esecutivo dovrà trovare in tempi brevi un flusso di cassa idoneo a consentire l’avvio e la prosecuzione dei cantieri per le opere strategiche e indifferibili. Una possibile soluzione potrebbe consistere nella creazione di un fondo temporaneo alimentato dall’extra gettito fiscale, sulla cui fattibilità incombe il rischio della recessione.
Diventa quindi inevitabile il riordino degli obiettivi programmatici, abbracciando una prospettiva almeno quinquennale e ipotizzando il ricorso alle risorse non impegnate del Fondo di Sviluppo e Coesione 2014-2020 per rispettare le scadenze del PNRR. L’Unione Europea ha aperto alla possibilità del loro utilizzo per misure di sostegno a famiglie e imprese colpite dalla crisi energetica. Tenuto conto che i numeri della mancata spesa si aggirano intorno ai 30 miliardi, una parte consistente di queste risorse potrebbe essere dirottata a copertura degli extracosti di opere del PNRR localizzate nel Mezzogiorno, con uno slittamento al Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027 per quelle definanziate dalla programmazione 2014-2020, ma in concreto mai avviate ed esistenti solo sulla carta.
Infine l’Esecutivo dovrà ripensare alla governance degli interventi. Attualmente coesistono 3 diverse strutture di missione per il supporto degli investimenti: due alla Presidenza del Consiglio (Investitalia e la Segreteria tecnica del PNRR) e una al Ministero delle Infrastrutture per la cosiddetta “project review”. Rivitalizzare il processo attuativo a valle della copiosa programmazione, richiede un’unica guida sotto Palazzo Chigi che semplifichi l’iter autorizzativo e intervenga con i poteri sostitutivi durante l’istruttoria, surrogando le amministrazioni inadempienti. Questo processo verrebbe completato con una rivitalizzazione del ruolo del CIPE, come unico organo di raccordo e approvazione dei progetti che dovrebbe assicurare in ogni caso l’autorizzazione, ancorchè condizionata, di tutte le infrastrutture realmente definite strategiche, anche se esterne al PNRR.