Assemblea Costituente per una nuova Carta dei diritti e dei doveri
Abbiamo corso il rischio di veder riformata la Costituzione secondo il più vieto parlamentarismo partitocratico, vale a dire con gli espedienti trasformisti di una maggioranza raccogliticcia ed un referendum confermativo che fine dall’inizio il presidente del Consiglio ha indirizzato sui binari di un plebiscito sulla sua persona e sul suo operato. Sappiamo come è andata a finire. L’epilogo dell’ennesimo pochade istituzionale andata in scena ci conforta nel rafforzarci nella convinzione che non si cambiano le Costituzioni per peggiorarle e, ancor più, secondo i desideri di una parte tutt’altro che rappresentativa del Paese reale. E’ finita male per Renzi, ma non è finita bene neppure per il Paese. Era infatti prevedibile, come in altre occasioni, che la vicenda avrebbe generato conflitti politici difficilmente sanabili, come stiamo vedendo. Il che ci porta a considerare quanto meno sciagurato l’approccio alle riforme secondo i costumi tribali in uso nei deteriorato mondo dei partiti.
Sono altri e ben diversi i modi, i tempi e le ragioni che dovrebbero presiedere ad un’operazione di vasto respiro al punto di durare per decenni e non offrire il pretesto, nel giro di pochi anni, ad altri riformisti improvvisati per un altro valzer costituzionale.
E’ pur vero che da oltre trent’anni abortiscono uno dopo l’altro i tentativi di riformare la Costituzione repubblicana, a testimonianza che modificarla per via parlamentare, e cioè con l’ipoteca che su di essa pongono le diverse maggioranze, è vano e velleitario. A meno di non voler considerare riusciti quelli che hanno stravolto il Titolo Quinto ed innescato un processo di dissolvimento di certezze istituzionali, bisogna ammettere che i “ritocchi” estemporanei hanno fatto più male che bene. A dimostrazione che un impianto costituzionale o lo si ripensa in maniera organica e complessiva o si va incontro al naufragio. Eppure le buone intenzioni non sono mancate, come dimostrano le Commissioni bicamerali presiedute da Aldo Bozzi (1983-1985), da Ciriaco De Mita e Nilde Jotti (1993-1994), Massimo D’Alema (1997-1998), purtroppo schiantatesi contro logiche partitocratiche. Era perciò inane immaginare che la sgangherata Riforma Renzi-Boschi avrebbe risolto una volta per tutte la questione. La Carta fondamentale – e forse è stato chiarito una volta per tutte – non può nascere, se vuole durare, nel modo in cui stava nascendo la “nuova”, frutto di compromessi al ribasso, di confusioni giuridico-politiche ed inficiata da un effetto-trascinamento che un Senato né abolito, né mantenuto si sarebbe portato dietro la decadenza di decine di norme. Sarebbe stata comunque un fallimento, anche in caso di approvazione popolare. Per il semplice fatto che la sedicente riforma non era sostenuta da una “filosofia”.
Della riforma, tuttavia, c’è bisogno. Lasciare le cose come stanno è delittuoso. Il problema è come farle: non si può continuare a pensarle rabberciate, né improvvisate, né tantomeno a “spezzoni”. Peggio ancora se approvate a maggioranza: l’esperienza recente dimostra che non reggono neppure lo spazio di una legislatura.
Se una “stagione costituente” deve nascere non la si può far partorire prescindendo dalla consapevolezza, condivisa peraltro da quasi tutti i soggetti politici, che le riforme devono rispondere alle esigenze reali dei cittadini, i quali si attendono la cessazione dell’estenuante guerriglia tra poteri dello Stato; una più razionale ed equa imposizione fiscale; la limitazione del decentramento che ridimensioni le Regioni, vere e proprie idrovore che drenano risorse pubbliche sottraendole allo sviluppo collettivo; criteri di autonomia di spesa che si contemperi con le oggettive richieste di solidarietà; un più rigoroso controllo da parte del Parlamento sugli atti del governo; l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (nella forma presidenzialista o semi- presidenzialista) che concretizzi la partecipazione democratica e la sovranità popolare nel modo più alto e compiuto.
Un’impresa del genere, dalla quale dovrebbe nascere addirittura, come si dice, la Terza repubblica, la può compiere soltanto una classe politica legittimata dall’investitura popolare con l’unico e preciso mandato di rinnovare il sistema politico-istituzionale. Se non si vuol continuare a perdere tempo, nell’indecente dimostrazione di impotenza davanti all’opinione pubblica, la strada, come da tempo immemorabile è stato ipotizzato, è una sola: il varo di un’assemblea costituente nella quale si confrontino idee, progetti, programmi dal cui lavoro venga fuori una nuova Carta dei diritti e dei doveri degli italiani in sintonia con le grandi questioni planetarie nelle quali siamo immersi. Assemblea che dovrebbe essere eletta a suffragio universale e con sistema rigorosamente proporzionale, della quale non dovrebbero far parte i membri del Parlamento (chi ha interesse può evidente- mente dimettersi da deputato o da senatore) che per almeno due anni s’impegni al fine di dare al Paese istituzioni all’altezza dei tempi e rispondenti ai bisogni dei cittadini. È il solo strumento, che possa sottrarsi alla tentazione di influire sul parallelo ed ordinario svolgimento dell’attività parlamentare, senza condizionare la vita del governo e gli assetti parlamentari stabiliti dalle consultazioni elettorali.
Dubitiamo che l’attuale classe politica sia capace di vincere l’antica pigrizia intellettuale che l’attanaglia e possa avere, dunque, la forza di intraprendere il percorso di un fattivo riformismo partendo da un’assemblea costituente che realizzerebbe le esigenze di partecipazione dei cittadini alla fase riformista e porrebbe le forze politiche e culturali nella condizione di elaborare una Carta frutto di una dialettica tutt’altro che improvvisata, al di là delle alchimie partitocratiche.
*Gennaro Malgieri, giornalista, scrittore