Auguri Costituzione? Sì, ma basta con la "sacralità". E’ un labirinto…
Settant’anni fa veniva promulgata la Costituzione della Repubblica Italiana. Anziché perderci in banali celebrazioni, vogliamo proporvi uno spunto di riflessione più approfondita, attraverso un estratto del libro “Costituzione, Stato e crisi” di Federico Cartelli (disponibile in formato ebook e cartaceo a questo indirizzo). Questo testo – in alcuni passaggi volutamente provocatorio – pone sotto processo uno dei miti della nostra società: proprio quella Costituzione «nata dalla Resistenza» che, benché sia stata concepita ormai molti decenni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire, agli occhi di molti, qualcosa di sacro e intoccabile.
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Fin dal principio, la Costituzione appare innovativa, attenta alle dinamiche sociali, infarcita di parole rassicuranti e buoni propositi. In realtà, essa è fragile e utopistica proprio perché annacquata in un indigeribile brodo hegeliano che la rende lontanissima dalle altre esperienze costituzionali del continente. Più che una legge fondamentale, è una lunghissima prova tecnica di pace sociale; ma la volontà di dirimere i latenti conflitti interni del dopoguerra si smarrisce in una vaghezza d’intenti che appare ancor più anacronistica e inefficace dinanzi al mondo moderno. Per citare una fortunata e nota espressione d’Arturo Carlo Jemolo, «questa verbosità della Costituzione [e] questo frequente ricorso a formule vaghe non sono una semplice offesa al buongusto, ma riverberano su tutta la Carta costituzionale una nota d’indeterminatezza, di pressappochismo, che certo non le giova». Quali che fossero le buone intenzioni dei Costituenti, il compromesso tra l’area marxista e quella democristiana ha prodotto un testo a metà fra propaganda comunista ed enunciazione evangelica, anni luce lontano da quello spagnolo, francese, tedesco, nemmeno paragonabile a quello americano o a quello non scritto consuetudinario inglese. Se la Costituzione francese nasce da una rivoluzione, così come quella americana da una guerra d’indipendenza che partorisce la prima grande democrazia, quella italiana emerge dalle macerie di un Paese fragile, traumatizzato dalla fine drammatica della guerra, e ne riflette incertezze e debolezze.
Alle elezioni del 1946 per l’Assemblea Costituente, i tre partiti più votati sono la Democrazia Cristiana, che ottiene 207 seggi; il Partito Socialista Italiano d’Unità Proletaria, con 115 seggi; e il Partito Comunista Italiano, con 104 seggi. Il Partito Liberale Italiano si presenta alleato col Partito Democratico del Lavoro – formazione, di fatto, socialdemocratica – nella coalizione denominata Unione Democratica Nazionale, che conta complessivamente 41 seggi. In proporzione alle forze rappresentate nell’Assemblea e ai rispettivi seggi, i 556 eletti nominano la «Commissione dei 75», incaricata di redigere la Costituzione e divisa in tre sottocommissioni: diritti e doveri dei cittadini, organizzazione costituzionale dello Stato, rapporti economici e sociali. Nella Commissione si riflettono i rapporti di forza emersi nell’Assemblea: la DC è il partito più rappresentato, con 26 componenti, mentre 28 si rifanno all’ideologia socialcomunista (sommando tutte le varie forze che si richiamano alla sinistra). I liberali sono destinati alla marginalità – anche se sarà proprio un loro esponente, Enrico De Nicola, a esser eletto Capo provvisorio dello Stato dall’Assemblea Costituente. Si tratta, tuttavia, di un’elezione di compromesso tra i due schieramenti maggiori, che individuano in De Nicola il nome comune per superare lo stallo della contrapposizione tra le candidature di Benedetto Croce ed Emanuele Orlando.
Questi rapporti di forza, che vedono una preponderanza netta della cultura cattolica e di quella socialcomunista a scapito di quella liberale, si traducono in una Costituzione sbilanciata verso intenti eccessivamente pedagogici e solidaristici, tra labirinti istituzionali creati ad arte per recondite paure di una rinascita della dittatura e maldestri tentativi di cristallizzare alcune eredità dell’epoca fascista. Così sintetizza Mario Paggi, tra i fondatori dell’allora Partito d’Azione: «[La Costituzione] era un fragile tessuto fatto di non armoniose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxiste dall’altro, con qualche malinconico residuo di un liberalismo che ha persino pudore della parola libertà». A questa genesi tormentata si aggiungono le dinamiche politiche che si verificano durante i lavori costituenti tra il blocco democristiano e quello del nascente Fronte Popolare di Togliatti e Nenni. Le elezioni del 1948 potrebbero segnare la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento: una circostanza che influenza non poco le trattative per la stesura della Carta, poiché la paura di una vittoria dell’avversario porta a un potere esecutivo fortemente ridimensionato e limitato. Annota Montanelli: «[La Costituzione] venne tenuta a battesimo da due forze politiche, la cattolica e la marxista, che erano state estranee al Risorgimento, quando non ostili, e che erano per tradizione, e per i personali convincimenti d’alcuni loro uomini, scarsamente sensibili ai grandi ideali liberali».
Sono proprio le libertà individuali – così come l’iniziativa e la proprietà privata – a venire colpevolmente relegate dietro le quinte: nei Princìpi fondamentali esse sono subordinate alla loro funzione sociale, svelando così il volto di una Costituzione agli antipodi del liberalismo. L’asservimento dell’individuo allo Stato è chiaro già all’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Risuona l’eco delle Costituzioni dell’Est, e viene inserito un afflato socialista accanto ai diritti inviolabili dell’uomo. Non è dato sapere quali siano questi doveri inderogabili: la sensazione è di leggere il documento programmatico di un partito, una sorta di carta d’intenti, e non la legge fondamentale di una nazione. Ben altra impostazione, ad esempio, si rintraccia all’articolo 1 del Grundgesetz tedesco: «La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere d’ogni potere statale rispettarla e proteggerla. Il popolo tedesco riconosce quindi gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento d’ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo. I seguenti diritti fondamentali vincolano la legislazione, il potere esecutivo e la giurisdizione come diritto immediatamente valido». Rispetto alla Costituzione italiana, l’impostazione è capovolta: cambia il destinatario dei doveri, il potere statale, fin dalla prima riga subordinato all’individuo, ed è il popolo a riconoscere i diritti dell’uomo, e non la Repubblica o l’entità statale.
Il compito primario di una Costituzione dovrebbe essere di limitare l’invadenza del potere statale e di ridurlo il più possibile, lasciando liberi gli uomini di regolare le proprie attività. Tuttavia, l’influenza della tradizione liberale anglosassone è stata pressoché nulla. Friedrich Hayek, in The Constitution of Liberty, così commenta l’esperienza del costituzionalismo americano: «Per i coloni, la libertà significava che il governo avrebbe dovuto avere solo il potere di fare quello che era esplicitamente richiesto dalla legge, in modo che nessuno potesse detenere un potere arbitrario. […] La Costituzione fu concepita così come una garanzia per il popolo, contro qualsiasi atto arbitrario, sia da parte del legislativo sia da parte dei rami dell’amministrazione pubblica».
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta