Basta divisioni. 4 novembre festa nazionale
Fra le tante anomalie italiane, quella di aver sbiadito la ricorrenza della «Vittoria» nella Grande guerra, per derubricarla in festa delle forze Armate, è quella che meglio descrive la schizofrenia di un popolo votato all’autolesionismo. La ragione vuole che si debbano festeggiare i trionfi, le conquiste, i balzi avanti nello scacchiere della storia. Invece no: nel calendario della Repubblica italiana, il rosso pennella una data che a ben vedere non decifra la vittoria di un’intera comunità nazionale, semmai la sua lacerazione. Una distorsione bella e buona. Quel che resta del 25 aprile è una somma di livori e rivendicazioni incompiute. Ma non poteva essere altrimenti se, come data, essa evoca la fine di una guerra civile, di una lotta fratricida, che ancora oggi non può dirsi totalmente pacificata. Tant’è che neanche sul versante partigiano, all’indomani della caduta della Milano mussoliniana, è stato possibile stabilire una narrazione che mettesse alla pari bianchi e rossi in un unico progetto di democratizzazione patriottica.
A cent’anni di distanza dal 4 novembre del 1918, non si tratta di rilanciare una guerra a muso duro tra due date che legittimamente rappresentano due snodi della vicenda nazionale. Per una volta almeno, questo Paese non deve andare di bianchetto o promuovere dei tentativi di rimozione forzata della memoria collettiva. L’Italia deve invece promuovere un movimento che la aiuti invece a ristabilire delle priorità e fissare nuovi obbiettivi. Riscrivere le tappe della coscienza comune a partire da una data luminosa, riscriverebbe le sorti di una compagine nazionale che ancora oggi non sa trovare pacificamente le ragioni del proprio stare assieme. Neanche le vittorie dei mondiali del 1982 e del 2006, riescono a stabilire un nuovo inizio. Appunto perché c’è sempre chi – convinto della propria superiorità morale – è lì a ricordare i misfatti di Calciopoli o i peccati sportivi che hanno preceduto il trionfo spagnolo di Paolo Rossi.
Se quella del calcio è una metafora, anche sul fronte antimafia i se e i ma sono lì ad azzoppare la costruzione di un patrimonio comune. Ce lo ricorda lo storico Salvatore Lupo, quando afferma – in soldoni – che il processo Trattativa ha dato adito di parlare a quei tanti che non riescono ad accettare che lo Stato, all’indomani del terribile 1992, ha comunque vinto. Roba a cui neanche i neuroscienziati saprebbero dare risposte. L’Italia è questo, un Paese fermo psicologicamente all’8 settembre 1943. Giorno in cui, in tanti, si trovarono a gioire per un tragico atto di viltà. Strana gente gli italiani, che per fare un dispetto alla moglie taglierebbero volentieri “il naso”. Vittime del campanilismo, dei pantheon a porzione singole e delle scomuniche continue.
La vittoria nella Prima guerra mondiale va festeggiata perché ci ricorda che in un determinato momento storico, mentre la classe dirigente di questo paese – assieme ai suoi intellettuali – era palesemente incapace di comprendere il tempo presente, la gente comune seppe comprendere il valore della sfida e vincerla. Una vicenda che pare dirci qualcosa anche sul tempo attuale. È un dato storico ormai acquisito che furono le trincee a cementificare le passioni di una nazione giovanissima. Fu l’altissimo contributo di sangue versato dai ragazzi provenienti sia dal nord sia dal sud a difesa dei confini nordorientali, a rendere l’Italia una nazione di eroi. Mutilata o no, la vittoria ci fu. Obliare quella stagione perché in qualche modo fece da propellente al fascismo, è sminuire i fatti e continuare nella sostanza un errore grossolano.
L’errore cioè di una parte del mondo progressista che allo scoppio della Guerra non riuscì a mettere in discussione il dogma neutralista, neanche davanti all’aggressione delle truppe del Kaiser ai danni di un Belgio inerme. Fu quello il momento in cui parte del mondo socialista, capitanato da Benito Mussolini da un lato e dal riformista Leonida Bissolati dall’altro, fiutò un’ opportunità irripetibile. Tornati dai campi di battaglia, i combattenti compresero (anche se in direzione non unitaria) che quell’esperienza avrebbe potuto offrire spunti di modernizzazione sociale anche in tempo di pace. Il quadriennio successivo è tra le fasi più vivaci, fantasiose e vitali, ma anche tra le meno digerite, della storia italiana. Ciò che venne dopo, ma molto dopo, fu invece l’ascesa di quei maitre a penser che sbagliarono prima e che in un certo modo continuano ancora oggi con presunzione a dettare le coordinate sbagliate dello storicamente corretto.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta