Caos catalano e pasticcio Rosatellum: quant’è pericoloso il minimalismo…
Che cosa accomuna in queste ore il caos di stanza in Catalogna con il battage sulla riforma elettorale in Italia? L’orizzonte, ristretto. Il respiro, corto. Che sia la stagione del minimalismo del resto, nel senso di obiettivi sempre più ridotti in scala rispetto alle visioni del ‘900 ma anche allo stesso riformismo che ha accompagnato il ponte tra XX e XXI secolo, è un fatto noto. Ciò che sta emergendo da questi due focolai di crisi però, per quanto diversi per dimensioni e specificità, è l’assoluta estemporaneità degli interpreti politici: una maionese di sfumature, contraddizioni e velleità, quella catalana; un tentativo maldestro di istituzionalizzare l’instabilità, per il terrore di dover passare la mano a nuovi soggetti, quella italiana.
Prendiamo il caso catalano. Il compianto Gianfranco Miglio insegnava che non esistono in genere secessioni pacifiche e consensuali, e che comunque ogni processo di separazione procede per strappi che inevitabilmente tali solo perché prescindono da un percorso istituzionale. Tradotto: non ci si separa da una Costituzione nazionale in nome della Costituzione stessa. Eppure Puidgemont e “compagni” hanno provocato il governo spagnolo sapendo perfettamente dell’inevitabilità delle conseguenze a cui avrebbero portato i catalani, indipendentisti e non (questi ultimi la maggioranza); Senza alcun calcolo, cioè, degli effetti collaterali – diciamo, quelli non violenti – per il popolo catalano stesso: fuga dei capitali e del terziario (la Catalogna è ricca solo per questo), isolamento da parte dell’Ue, chiusura del primo mercato per ampiezza (quello “interno”, ossia il resto della Spagna).
Che cosa hanno fatto, allora, davanti all’inevitabilità? Un passo indietro, dissimulando di aver compiuto un passo avanti. Dichiarazione di indipendenza sì ma “sospesa” – ha affermato nel suo discorso il reggente della Generalitat -, in attesa di capire come andrà a finire un dialogo che non può aver ragione di esistere perché il referendum sull’indipendenza è stato giudicato illegale dalla Suprema Corte. Un muro contro muro, poi, che è destinato a isolare sempre di più i secessionisti nel contesto internazionale, ma che soprattutto sta facendo emergere i reali obiettivi polemici dei leader indipendentisti e di gran parte delle sinistre catalane e spagnole: il governo Raioy. Lo ha detto, con incredibile sincerità, il leader di Podemos: “Il problema per i catalani non è la Spagna ma il suo premier. Se facesse un passo di lato, la nuova maggioranza composta da Psoe, noi, nazionalisti catalani e baschi potrebbe far rientrare la crisi”. Per non parlare, poi, dei retroscena sui guai giudiziari dei vertici indipendentisti – che potrebbero essere “condonati”, secondo le indiscrezioni, da una “rivoluzione” – e sui nodi oggettivi dell’alto debito della Catalogna (la più indebitata di Spagna).
Che c’entra con tutto questo il Rosatellum bis? È figlio della medesima carenza di proiezione dimostrata dai vertici della Generalitat. Davanti a una crisi di sistema che richiama in tutta Europa e a tutti i livelli un rafforzamento degli organi di decisione e degli esecutivi, in Italia quasi tutti i leader si affannano, senza convincere nessuno, a ricercare la presunta rappresentatività. In realtà – studiando il meccanismo della legge – si tratta della corsa a “blindare” il proprio futuro personale e a gestire le “truppe” in ragione di un governo tecnico stabilito ex ante. Tutto questo per stoppare la composizione di nuove entità (da quella sovranista di centrodestra allo spauracchio anti-politico dei 5 Stelle) ma con un costo per il Paese potenzialmente esiziale: l’immobilità. Un’opzione estemporanea, dunque, speculare a ciò che in Catalogna hanno fatto con la “secessione sospesa”: una democrazia “delle segreterie” che “sospende” la governabilità per perpetuare se stessa.
*Marco Marconi, collaboratore Charta minuta