#Charlie. Quell’alleanza tra amore e scienza che rischia di restare sospesa
A questo punto non c’è che augurarsi che il piccolo Charlie Gard vada via in silenzio, tra le braccia dei propri genitori. Che le sue ultime ore possano rientrare nella normalità di una condizione al limite. Una normalità antica quanto le angosce dell’umanità. Sì, perché prima ancora che gli sviluppi della medicina, e quindi del dibattito bioetico, prendessero un’accelerata da capogiro, le decisioni ultime sulla vita di una persona venivano prese nel riserbo del dramma domestico. Succedeva che i medici riservassero la parola fine, come anche l’andiamo avanti, alla famiglia in un lasso temporale nel quale il discrimine tra bene e male si faceva relativo, sottile, ma rispettabile. Una sorta d’intesa non codificata che ricomponeva l’incapacità del corpo medico a ristabilire la salute del paziente e le sofferenze esistenziali prodotte dal dolore di un congiunto.
Nel caso del piccolo Charlie, il dato più evidente che tuttavia rischia di sfuggire nel bailamme del dibattito pubblico è che l’alleanza terapeutica tra sanitari e familiari è saltata per aria. Un’esplosione tanto forte che neanche i giudici riescono più a riassemblare i cocci. Non fosse altro che non è nelle competenze di qualsiasi Corte – fosse anche quella europea per i Diritti umani – di disporre del principio speranza. Qualsiasi giurisprudenza non può mai essere pienamente competente in materia, neanche davanti a precise indicazioni del legislatore. Anche per questo ogni volontà di ridurre la complessità della vicenda di Charlie, posta la ferocia della rara malattia genetica che lo ha colpito, rischia di essere maldestra o di prestarsi a imbarazzanti strumentalizzazioni ideologiche.
Alla fine, il presunto silenzio di Papa Francesco è stato rotto da un tweet e da una nota delle sala stampa vaticana in cui si auspica «che non si trascuri il desiderio dei genitori di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo». Ma cosa avrebbe dovuto dire di diverso pontefice? In fondo, lanciare proclami sorvolando sui limiti della medicina o alimentando aspettative incerte su protocolli in via di sperimentazione non sarebbe stato altrettanto serio dal punto di vista scientifico e istituzionale, non essendo appunto quella papale una cattedra medica.
Resta però un nodo sopra il quale anche la chiesa cattolica è chiamata a esprimere le proprie ragioni in forma autorevole: aiutare il mondo laico a comprendere dove sta il confine tra il diritto a vivere e quello a morire con dignità; o se l’idratazione e l’alimentazione artificiali siano cure o un obbligo morale che ogni comunità deve garantire a più deboli. In tal senso, il principio del «caso per caso» auspicato da papa Bergoglio più che risolvere la disputa la alimenta, soprattutto se la sua parola continuerà a essere mediata dalla Pontificia accademia della Vita senza metterci la faccia di prima persona.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta