Chi misura i beni immateriali
È il reddito a fare la felicità o è la felicità che deve servire a fare reddito? Al di là dei giochi di parole, questo è un interrogativo molto sentito nella società contemporanea, anche perché è sempre più evidente che, almeno nei Paesi economicamente avanzati, all’aumento della ricchezza non corrisponde una parallela crescita del benessere soggettivo. Anzi. In molti casi, è diffusa la sensazione che lo sviluppo economico, con le sue attuali caratteristiche, possa minacciare la qualità stessa della vita.
Da qui il nascere di vivaci dibattiti fra economisti, psicologi, sociologi ed esperti. Con i primi, per lo più, a scommettere sull’influenza positiva che un’economia forte e un diffuso benessere possono avere sulla felicità dell’individuo. I secondi, invece, non vedono una correlazione tra incremento della produzione e felicità. Tuttavia, quando l’economia va male, e le tasse ci opprimono, l’angoscia e il pessimismo sul futuro possono incidere sull’infelicità, indipendentemente dal reddito posseduto. Prova ne sono le sofisticate strategie di comunicazione del mondo economico che tendono a contrastare forma di scetticismo e crisi della credibilità del sistema. Vengono costruiti, proprio come nel cinematografico Matrix, mondi attraenti, finti, artefici di felicità. Simulazioni di realtà, capaci di generare in noi il desiderio del benessere, nella convinzione che questo possa generare una condizione felice. Da qui l’affannosa corsa quotidiana verso il perseguimento di una prosperità che, come hanno dimostrato i più accreditati studi sociali, non dipende tanto dal volume dei beni posseduti quanto dai “beni relazionali”, cioè dal numero di relazioni di qualità, che ciascuno di noi detiene.
Ma “l’economia della felicità” è tutt’altro che una moda, se non si limita alle curiosità. Richard A. Easterlin, ha scoperto importanti regolarità che smentiscono alcuni luoghi comuni dell’economia e della psicologia tradizionale. Lo studioso si domanda quali siano le determinanti del benessere soggettivo e osserva che è sbagliato pensare, come fanno molti psicologi tradizionali, a cause personali o genetiche: «Eventi della vita che attengono alle esperienze non monetarie, come il matrimonio, il divorzio, la disabilità fisica, hanno effetti permanenti sulla felicità delle persone». Le storie non economicamente valutabili contano molto e non costituiscono solo una temporanea deviazione dal percorso psicologico individuale. Non solo. Secondo Easterlin, gli economisti sbagliano a pensare che il miglioramento delle condizioni economiche e delle disponibilità monetarie abbia sempre e soltanto effetti positivi sul benessere e la felicità: «Un aumento del reddito e dunque delle merci che le persone hanno a disposizione non porta con sé un miglioramento permanente nel benessere o nella felicità, a causa dell’adattamento alle condizioni esterne e a causa della tendenza a fare comparazioni con gli altri membri della società». Insomma: l’idea economicista che «più è meglio» è completamente sbagliata.
La felicità, dunque, non aumenta con la crescita del reddito. O, quanto meno, la sensazione di gratificazione che si ottiene entrando in possesso di un certo bene è temporanea. Dopo un periodo che può essere più o meno lungo, quel senso di soddisfazione e appagamento vengono riassorbite dall’abitudine e dal confronto con il resto della società. Secondo Easterlin, infatti, noi ci abituiamo agli oggetti che possediamo e ci confrontiamo con chi ne possiede in misura maggiore. Per ritrovare quella soddisfazione, quindi, occorre comprare sempre di più, accumulare ancora più soldi, iscriversi a club sempre più esclusivi o montare in sella a moto sempre più potenti. Alla fine, si baratterebbe il fine con il mezzo, diventandone schiavi. Queste sono fasi in cui la felicità cresce insieme con il reddito. Fasi, appunto. Dopo, a lungo termine, nasce quel senso di infelicità e di insoddisfazione continue determinato, in chi cerca la felicità solo in questo mondo “virtuale”, dalla gara imposta dall’“economia” moderna.
Da questo punto di vista, le società cosiddette avanzate, iper-soddisfatte, oggi sperimentano il loro più gigantesco fallimento. Un fallimento dimostrato da numerosi studi, a cominciare da quelli dei ricercatori americani David Myers e Ed Diener. I due – prendendo in considerazione più di un milione di persone in 45 Paesi del mondo – sono arrivati alla conclusione che, sebbene a bassissimi livelli di ricchezza si trovi una connessione relativamente positiva tra crescita del reddito e felicità, quando il reddito pro capite supera l’equivalente di 8mila dollari all’anno, non c’è più una relazione tra disponibilità di ricchezza materiale e felicità. Lo stesso Diener, peraltro, aveva in precedenza confrontato la felicità dei 400 americani più ricchi della classifica stilata da Forbes con la felicità di un campione di Maasai, una popolazione dell’Africa orientale che vive a uno stadio di economia molto tradizionale. Dalla ricerca era risultato che il loro stato di soddisfazione era molto simile.
Ovviamente, bisogna tenere conto anche delle diversità culturali che non possono non influire sulla felicità autovalutata dalle persone. Nonostante ciò, considerando scientificamente questi fattori, si arriva a dire che le entrate non sono una misura della felicità.
Un altro americano, Mihaly Csikszentmihalyi, ha scoperto un rapporto inverso tra il benessere materiale dei ragazzi americani e il loro benessere percepito. I giovani ricchi degli States sembrano meno felici di quelli poveri. E non è un dato isolato. Anzi. Myers e Diener, nella loro ricerca, hanno scoperto che la relazione tra reddito e felicità è ben più complessa di quanto avrebbero immaginato gli economisti lobotomizzatori. «La felicità sembra essere più bassa tra chi è molto povero, ma a livelli di reddito sufficienti il denaro non sembra comportare necessariamente un grado di soddisfazione elevato per la propria vita». Come dire: se il reddito è basso e comincia a crescere, la felicità aumenta. Ma solo fino a un certo punto perché, quando è cresciuto abbastanza, il reddito non aggiunge più nulla alla felicità.
Constatato, dunque, che la felicità non è solo questione di maggiore ricchezza, consumi, beni materiali, ma è qualcosa di molto più complesso; constatato che essa non corrisponde al benessere e che la soddisfazione effimera non può colmare il desiderio di appagamento insito nell’essere umano, come può l’uomo trovare una via di fuga per continuare a sognare, sfuggendo a una società contemporanea iper-soddisfatta, in cui la corsa a ogni bene desiderato – seppur a portata di mano – è infinita e creatrice di infelicità continua? La risposta data dai sociologi e dagli psicologi è che le vere fonti di felicità, le più durature, sono quelle legate alla qualità delle relazioni umane, che si intrattengono con amici, familiari, fidanzati. Cioè, non i “beni materiali”, ma i “beni immateriali e relazionali”.
E, infatti, come scrive Easterlin, è molto più duratura la felicità che deriva dalla qualità delle amicizie e degli affetti familiari, o l’infelicità generata dal fallimento di un matrimonio. Così, avviene che la rincorsa al possesso di beni materiali impone, a chi ne è preda, di lavorare sempre di più per guadagnare ciò che serve a consumare sempre di più, tralasciando affetti e amicizie. Il tempo e l’attenzione dedicati al lavoro e al consumo sostituiscono il tempo e l’attenzione dedicati alla famiglia e alle relazioni sociali, che finiscono per andare in crisi. In tal modo, per ottenere una soddisfazione limitata nel tempo, ci si infligge un’infelicità duratura. C’è un punto oltre il quale la crescita dei beni materiali non porta felicità ma infelicità. E intere società sono arrivate a questo punto nel corso della loro storia.
Certo, la questione della felicità è stata considerata a lungo non adatta a un’analisi di tipo scientifico perché – è questa l’obiezione – è un concetto troppo soggettivo, che coinvolge valori e stati d’animo valutabili solo a livello individuale. Solo di recente la psicologia sociale ha intrapreso il difficile cammino dello studio della felicità.
Oggi è alle porte un possibile cambiamento di paradigma, che, partendo dalla crisi degli indicatori classici di sviluppo – rigidamente ancorati a criteri di produzione materiale –, sollecita la ricerca di indicatori aggiuntivi, più autenticamente in grado di registrare e promuovere la qualità della vita di ogni singolo individuo, l’armonia della convivenza umana e del rapporto con l’ambiente. Da qui l’esigenza di un impegno congiunto e approfondito delle scienze economiche, da una parte, e psicosociali, dall’altra. A queste ultime, da tempo orientate sull’analisi della patologia e del malessere, si chiede oggi un grande impegno innovativo nello studio positivo del benessere. Daniel Kahneman ha dedicato ampie e sostanziose pagine al concetto di psicologia edonica e all’affermazione – con tutte le cautele metodologiche del caso – secondo cui la qualità della vita è un tema di ricerca possibile e fondamentale. Il che è decisivo per poter scoprire la strada per studiare l’economia senza dimenticare i sogni delle persone corsivo pippoz.