Contributo: Perché voterò per Giorgia Meloni
Non ho mai avuto l’occasione di incontrare Giorgia Meloni, nemmeno quando, all’epoca di Gianfranco Fini, scrivevo editoriali per “Secolo d’Italia”. Conosco personalmente, avendone grande stima, solo l’attuale Presidente del Copasir, Adolfo Urso; non ho mai incontrato nessun altro del partito “Fratelli d’Italia”.
Il mio voto per Giorgia Meloni è un voto che vorrei perciò spiegare ai miei quattro fatidici lettori, proprio nel momento in cui i grandi giornali, politici e commentatori nei talk-show e via dicendo, hanno scelto di parlarne male arrivando talvolta finanche a individuare in lei una sorta di pericolo per la nazione (oltre che per la democrazia, intesa però sempre a modo loro).
Ho sufficienti competenze, giuridiche, filosofiche, sociologiche e storiche, per sapere una cosa importante: la politica non è in grado di cambiare il mondo o, più semplicemente, una società. Non lo è mai stata e tanto meno può esserlo oggi, in un’epoca di capitalismo maturo, finanziarizzato al massimo, interdipendente a livello globale e quindi tanto meno soggetto alle sollecitazioni della politica (la quale può più facilmente fare danni che riparare i guasti). Se a ciò si aggiunge che la formazione economico-sociale capitalistica si è rafforzata, pur tra crisi ricorrenti, anzi forse grazie a queste (quelle passate, quella presente e quelle future), si comprende facilmente che la politica, oramai debole in sé, è tanto più bloccata nelle sue capacità decisionali, specie in mancanza di classi politiche adeguate (in Italia, ma non solo).
Ma che cos’è la politica? Non è questa la sede per ricostruzioni dottrinali; per me la politica è però essenzialmente, wesentlich, per chi conosce il tedesco, politica estera. Le sue degenerazioni più recenti dipendono anche dal fatto che alla politica, in Europa e specialmente in Italia, si è sottratta questa sua sostanza, snaturandola nemmeno nell’amministrazione (attività strutturale), ma in una sorta di chiacchiera inconcludente. Quando si è perso il senso della politica, diciamo pure la bussola per orientarsi, tutto è diventato possibile e in un mondo schiodato il famigerato ‘cacciavite’ dell’ineffabile Enrico Letta (il più improbabile tra i politici degli ultimi decenni) non serve nemmeno per avvitarsi sul collo quello che gli resta della testa. Non è un caso che la tematica dei ‘diritti’ abbia sostituito a sinistra l’antica rivoluzione di classe e che a nessuno nel Partito democratico venga il pensiero che la miseria crescente (pochissimi straricchi e masse di poveri) non dipende dalla (in)soddisfazione dei diritti, semmai ‘di genere’, ma dalla mancanza di scuole e università adeguate, di servizi decenti, di lavoro e dalla crescita di quello dequalificato (la presenza di una percentuale rilevante di laureati al concorso per ‘operatori ecologici’ a Napoli ne è l’ultima dimostrazione). Non basta dire ‘lavoro’ per crearlo!
Non che a destra le cose vadano o siano andate sempre al meglio. Le proposte di Salvini hanno già messo abbastanza a repentaglio, in uno con quelle dei cosiddetti “5 stelle”, le casse già disastrate dello Stato, prosciugate ancor più da ‘ristori’ e acquisti (penso alle mascherine del signor Arcuri) spesso sconsiderati negli anni della pandemia. Non basta averne preso le distanze per dimenticare che la legge sul cd. “reddito di cittadinanza” (finita spesso nelle tasche di camorristi) fu approvata da entrambi (Salvini e il signor Di Maio) insieme con la riforma della legge Fornero e i decreti cd. ‘sicurezza’. Se a sinistra dimenticano di dire che i soldi che “l’Europa” dà all’Italia sono al 70% prestiti che devono essere restituiti con gli interessi, a destra (quella di governo) fanno lo stesso con i cosiddetti “scostamenti di bilancio”, che altro non sono che nuovi debiti. Così il gioiello etico-politico della destra storica, il pareggio di bilancio, è ormai solo un paragrafo nei libri di storia, come tutte le più recenti proposte di ordine: il poliziotto di quartiere, la lotta alla criminalità, il divieto di ingresso per immigrati illegali ecc.
Non che in generale non si voglia il meglio, semplicemente all’atto pratico ogni buona intenzione, quando le manca il fondamento politico, resta tale, una promessa non mantenuta. Diversamente stanno (o possono stare) le cose quando la politica non parte dalle cose domestiche (vi prometto questo e quest’altro), ma ad esse arriva muovendo dall’essenza della politica (ovvero del Politico), che è il rapporto con le altre potenze, Stati, imperi, federazioni o quel che siano. È esattamente questa la ragione per la quale una persona seria e tanto più una persona che abbia un minimo di competenze vede nel modo di ragionare della Meloni un ritorno alla politica, quella vera, dalla quale dipendono tutte le altre scelte in politica interna.
In cosa consiste questa decisione in favore della politica estera? Si badi: non intendo elogiare il contenuto di questa decisione, la quale, come dirò fra poco, non mi trova sempre concorde. Resta però un fatto che l’accento posto sull’interesse nazionale in rapporto alla cosiddetta Unione europea (che non è l’Europa) segnala esattamente questa svolta, che in questo caso è duplice: da un lato afferma che l’Italia non è un mero organo dell’Unione europea, dall’altro, rivendicando la natura di entità statuale autonoma, si afferma di voler praticare in primis una politica estera: nei confronti degli altri Stati dell’Europa e della stessa organizzazione chiamata Ue, la quale si è arrogata, in forza del primato del diritto giudiziario, una autonomia che non le compete secondo i Trattati originari e che è il risultato di scelte dichiarate come obbligate, in una logica che dire ricattatoria è dir poco (nel senso: l’Ue non può tornare indietro, quindi bisogna andare ‘avanti’, anche se non si sa bene verso dove).
Affermare dunque la originarietà della politica estera italiana, che non può dipendere da scelte (meglio: da non scelte) della burocrazia tecnocratica di Bruxelles, significa innanzitutto riaffermare – esattamente contro le retoriche dichiarazioni della sinistra – il primato della democrazia e del metodo democratico fondato sulle elezioni e sul popolo, che è ancora un popolo nazionale: come ha più volte affermato la Corte costituzionale tedesca, la democrazia (per i Tedeschi) non è quella dei Trattati, ma quella dichiarata e garantita (dal governo di Berlino e dalla Corte di Karlsruhe) nelle norme della Costituzione federale tedesca, che non è a disposizione né dei Trattati né tanto meno della volontà della Commissione o del Parlamento europei (tanto meno dei giudici del Lussemburgo).
Dal primato della politica estera discendono una serie di scelte di politica interna, che sono ovviamente simbiotiche con il primato degli “affari esteri”. Non sono un ‘sovranista’ (termine ambiguo: basta riaffermare il principio della sovranità), ma una volta sottratta la decisione a Bruxelles per riportarla in Italia, da ciò discende che solo in condizioni di reciprocità, per esempio, si può accedere a certe norme in materia tributaria. E solo dopo che si è accertata una parità tra i contraenti. Niente ‘mercato del diritto’ (un’impresa che sceglie dove insediarsi in base ai vantaggi tributari che le concedono), quindi, che danneggia alcuni Stati e favorisce altri, con ricadute non astratte, ma proprio sulla qualità e il livello di vita interni, cioè dei cittadini.
Chi blatera di “più Europa” senza dire cosa deve esserci in questa formula (tirando sempre in ballo il fatidico “Erasmus” che porta gli studenti a fare vacanze all’estero mentre le università italiane decadono) inganna consapevolmente. Giorgia Meloni ha detto di volersi sottrarre a questo inganno, riaffermando così il primato della politica, la quale, avendo dei limiti strutturali, può fare qualcosa (poco) solo a queste premesse e condizioni, rifiutate invece da (quasi) tutti gli altri antagonisti di “Fratelli d’Italia”.
Come ho detto, non entro nel merito di tutte le scelte fatte in politica estera (né sottoscriverei al cento per cento quelle in politica interna), perché bisognerebbe parlare anche della questione ucraina, dove personalmente ritengo che non si possa continuare “fino alla vittoria”, non quella della Russia (la famosa “Z”), ma quella dell’America. Si tratta di un conflitto dove la scelta occidentale è dovuta prima che legittima, ma non a tutti i costi e senza vagliarne tutte le conseguenze, che in negativo toccano i paesi dell’Europa occidentale, non gli Stati Uniti d’America, i quali grazie alla guerra stanno ‘ricucendo’ la loro economia (discorso lungo, che ci porterebbe ai limiti sistemici del capitalismo). Tuttavia, anche questa scelta (per quanto discutibile) è un punto a favore della Meloni, che se ben gestita (non come ha fatto e sta facendo il Prof. Draghi, specie con le sue ultime, incomprensibili dichiarazioni) potrebbe consentire all’Italia un ruolo meno passivo e subalterno, sul presupposto che la politica estera non può dipendere dall’organizzazione interna di uno Stato (la Russia è uno Stato autoritario, ma non è per questo che ha invaso l’Ucraina).
In definitiva, proprio la rivendicazione di una quota minima di sovranità nazionale garantisce non solo l’interesse nazionale, ma anche, e soprattutto, la democraticità (possibile) di una costituzione nazionale. Sistemi elettorali truffaldini, la difesa di un parlamentarismo che soffoca il rapporto (necessario in una democrazia) tra elettore ed eletto, l’elogio di una costituzione solo ad usum delphini, tutto questo non è futuribile, ma è quanto è accaduto e sta accadendo in Italia da anni; rispetto a questo dramma la politica di Giorgia Meloni non è un “rischio per la democrazia”, come sostiene una finta sinistra, ma esattamente il contrario: il ripristino della democrazia, almeno di quella possibile, che serva agli Italiani e non a qualche élite arroccata nella difesa dei ‘diritti’, che sarebbero sempre solo i loro. Potrei addurre qualche altra motivazione, ma sarebbe di natura contingente; dal punto di vista sostanziale è chiara la scelta: si può non andare a votare (cosa del tutto legittima e anche comprensibile), ma chi volesse farlo non potrebbe, oggi, non votare per Giorgia Meloni e il partito “Fratelli d’Italia”, accettando consapevolmente i rischi insiti in ogni scelta, ma almeno con la coscienza di avere ragionato sulle motivazioni e sulla logica di una decisione del genere.
Agostino Carrino, Professore Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Napoli Federico II