Così Tatarella costruì Alleanza Nazionale
«Ciao Adolfo, sei rientrato?». Lo ricordo ancora come se fosse ieri: Pinuccio Tatarella che mi blocca così in uno dei corridoi di accesso al “Transatlantico” a Montecitorio. Era il settembre del 1992 e si profilava l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria, frutto del referendum Segni, che avrebbe di fatto cancellato la destra politica del Movimento sociale italiano dal Parlamento, riservandolo nella ridotta della quota proporzionale. Ai tempi non ero ancora parlamentare: avevo trascorso quasi due anni come vicedirettore del Roma a Napoli ed ero appena “rientrato” a Roma, dunque, come caporedattore di quell’avvenutura editoriale e culturale chiamata L’Italia Settimanale.
Davanti a uno scenario così potenzialmente disastroso per tutti noi, Tatarella non era per nulla rassegnato né preoccupato, anzi. Sognava di raccogliere pienamente la sfida del tempo – ricordiamo che erano i primi mesi dall’esplosione di Tangentopoli – per far uscire, una volta per tutte, la destra dal “ghetto” politico. Sperava di portare a compimento, ciòè, quello che da tempo era volontà sua e di pochi altri, tra cui certamente i suoi coetani Domenico Mennitti e Altero Matteoli, che su questo orizzonte avevano addirittura fondato una corrente negli anni Ottanta, dal nome Proposta Italia, di cui peraltro dirigevo l’omonima rivista.
Pinuccio Tatarella era già riuscito nell’intento di affermare la nuova segreteria di Gianfranco Fini, fortemente voluta da lui (e da Giorgio Almirante), ed ora aveva l’occasione di imporre finalmente la svolta politica che aveva sempre agognato, nonostante i timori diffusi anche nei gruppi parlamentari del Msi nei confronti del nuovo sistema elettorale che si profilava.
«Adolfo, hai letto l’articolo di Domenico Fisichella su Il Tempo?». Tatarella si riferiva ad un editoriale – che poi diventerà un contributo cult per gli studiosi della fondazione della destra di governo – del professore e politologo uscito pochi giorni prima dove, per la prima volta, emergeva la necessità politica di realizzare una Alleanza Nazionale. «Sì – gli risposi -, è quello che abbiamo sempre aspirato a fare». Ed ecco arrivare qui una delle sue intuizioni: «Mi aiuti a costruire questa Alleanza Nazionale? Tu sei stato “fuori” in questi ultimi anni e ti possiamo far considerare come un soggetto esterno al partito, come me hai sempre pensato che fosse questa la strada giusta».
Ovviamente accettai senza battere ciglio ed ebbe inizio da lì non solo una collaborazione ma anche un vero e proprio schema di azione. La prassi, solo in apparenza, era semplice: Tatarella indicava la strada, io cercavo di elaborarla e Fini, da parte sua, la percorreva. In mezzo stava tutto il resto. Ogni sera noi due ci vedevamo per fare il punto a cena e sempre con qualcuno che intendevamo coinvolgere nel processo: intellettuali, giornalisti, economisti, esponenti politici della destra diffusa. Quel cotè non burocratico né contiguo ai carrierismi che tanto amava Pinuccio. E ogni settimana relazionavamo i percorsi e le novità salienti a Fini, cercando di suscitare il suo interesse. Alla fine, e in brevissimo tempo, riuscì ad avere ragione sul metodo e nel merito, vincendo ogni resistenza interna ed esterna.
Tatarella aveva vinto la sua battaglia. In tanti compresero solo dopo che rappresentava in realtà la battaglia “per tutti”: era riuscito a cambiare la destra, poteva ora cambiare l’Italia. A tempo, oltretutto, con l’occasione della storia: di lì a poco, infatti, riuscimmo a portare il Msi-An nel primo governo di centrodestra della storia repubblicana, molto prima di quanto tutti ci aspettassimo. Tutto ciò in pochi, entusiasmanti mesi. Quella foto del maggio 1994, che riprende i ministri “missini” di An (Adriana Poli Bortone, Domenico Fisichella, Publio Fiori, Altero Matteoli e, ovviamente, Pinuccio Tatarella) con il leader Gianfranco Fini, conferma in pieno la bontà della regia di colui che Alleanza nazionale l’ha pensata, quando in pochi la immaginavano, e fortemente voluta, quando in tanti, all’interno dello stesso partito, si opponevano.
Se è vero, però, che quella prima stagione di governo durò poco – a causa dell’idiosincrasia dei poteri forti, che lui stesso “sfidò” nel merito, defininendoli con nome e cognome nel celebre colloquio con La Stampa, e del ribaltone di Umberto Bossi -, questo lasso di tempo fu comunque sufficiente a Tatarella per innestare nel tessuto istituzionale i rami più vitali della destra politica. A partire da quell'”armonia”, la caratteristica che lui rivendicava per se stesso, che è stato l’elemento con cui ha trattato – da meridionale e pugliese puro sangue – la questione nazionale come contraltare alle spinte secessioniste dell’allora Lega Nord. Ricerca della concordia in luogo della guerra civile permamente che ha caratterizzato anche il suo personalissimo approccio ai rapporti con gli avversari politici, trattati (a partire da Massimo D’Alema) con un rispetto e una cura sotto il cui velo si celava il politico astuto, capace di praticare una forma raffinata di egemonia che oggi chiameremo soft-power.
Tutto questo in ogni caso sarebbe risultato comunque insufficiente se, a monte, Tatarella non si fosse preoccupato di fissare bene gli assi cartesiani della destra: il primo, il “riformismo nazionale” che ha nel presidenzialismo da lui proposto fin dagli anni ’80 lo sbocco naturale (e che oggi più che mai, nella democrazia delle leadership forti, dimostra tutta l’attualità dell’intuizione tatarelliana); il secondo, una nuova generazione che ha coltivato, motivato e condotto fino al congresso di Fiuggi, in cui peraltro fu ancora una volta immortalata dallo stesso Tatarella in un’altra foto “a cinque” sul palco, che lui fortemente volle chiamandoci ad uno ad uno, quasi a indicare in modo iconoclastico quale fosse il nuovo ceto dirigente, che avrebbe dovuto assistere e proteggere Fini
Quella nuova classe dirigente è stata chiamata per vent’anni a rappresentare una “comunità dirigente” che si è dovuta scontrare, con alterne fortune ma con un chiaro riferimento alla sua scuola, contro quelle stesse “caste” che Tatarella aveva individuato prima di tutti: le stesse che ancora oggi ostacolano lo sviluppo economico e la piena emancipazione dell’Italia nel contesto europeo.
Ecco solo alcuni dei motivi di una sterminata letteratura politica, umana e persino antropologica, per cui Pinuccio Tatarella ci manca maledettamente. A maggior ragione in un momento come questo, dove le ricette della destra politica sono maggioritarie nel mondo ma non ancora “armonizzate” in una proposta organizzata come, sono certo, lui si impegnerebbe a fare oggi. A partire proprio dalla politica estera, che lo entusiasmava, lui barese, legato alla propria terra e al proprio dialetto, perché la politica estera è l’essenza della politica e dello Staro, ne definisce i confini e la stessa esistenza. Tanto più oggi, nell’epoca post-globale.
Non a caso eravamo a New York in quel febbraio del 1999 quando giunse la notizia della sua morte improvvisa, durante una difficile operazione di trapianto. Ignazio La Russa chiamò me, Gasparri e Matteoli nella sua stanza per comunicarci la notizia. Eravamo giunti poco prima in albergo dall’aeroporto, perché avevo organizzato una missione per alcuni dirigenti nazionali e locali di Alleanza nazionale con l’obiettivo di incontrare il sindaco Rudolph Giuliani e altri esponenti del partito repubblicano. Tatarella mi aveva sempre spinto, infatti, a curare con dedizione e non solo a livello formale i rapporti con i leader dell’Occidente e riteneva fondamentale la collocazione internazionale della destra italiana.
Nella stanza di Ignazio decidemmo, ovviamente, di rientrare subito a Roma, lasciando gli altri della delegazione in un clima di dolore che è facile immaginare. Tatarella infatti era il padre politico di tutti noi, per la verità più degli altri che mio. Di certo era il padre della nostra generazione, lui che non ebbe figli ma ne aveva “adottati” tanti. Curava, stimolava, talvolta rimproverava, ma sempre con lo spirito di un dirigente militante, tanti giovani che poi hanno segnato la storia della Repubblica, certamente la storia della destra.
Quel padre mancò a tutti noi troppo presto, nel momento cruciale, e la storia, purtroppo, ha preso un corso diverso. Senza la sua guida, quei giovani non riuscirono a proteggere da se stesso, colui che era stato indicato a guidarli. Ma questa è un’altra storia. Quella di Tatarella si ferma in una sala operatoria di Torino. Lui giovane pugliese che tanto amava la sua terra e il suo Meridione, muore nella capitale della emigrazione meridionale. Ma le sue idee sono ancora vive e basta andare a Bari Vecchia per capire quanto avevano seminato e prodotto anche tra il popolo. Sì, Pinuccio è stato un uomo capace di suscitare timore e ammirazione nell’establishment, ma anche e soprattutto rispetto e amore tra i vicoli della sua gente. Li stessi che trovava nelle sezioni dove si è alimentata grazie al suo contributo determinante la nostra speranza. Ecco perché Tatarella con i suoi insegnamenti ha sempre un posto d’onore nei nostri ricordi e nelle nostre azioni. Del resto è lì che è sempre voluto stare: in prima linea a difendere la nostra Italia.
* Articolo di Adolfo Urso pubblicato sul volume della Fondazione Tatarella in occasione del ventennale che sarà ricordato nel meeting in programma alla Camera per venerdì 6 febbraio