Deglobalizzazione, Reshoring e Allyshoring, quali prospettive?
Di fronte agli shock della pandemia covid, della guerra in Ucraina e alla conseguente rottura delle catene del valore globali, molti analisti hanno iniziato a confrontarsi sul nuovo mondo con cui si dovranno misurare nazioni ed imprese. È ancora difficile prevedere i nuovi assetti ma quello che sicuramente sta emergendo è un contesto multipolare sia dal punto di vista politico che economico.
Questo mutamento di scenario rappresenta potenzialmente una buona opportunità per riflettere su nuovi modelli di sviluppo in grado di ridurre le distorsioni emerse negli ultimi 30 anni di globalizzazione. Pensando ai paesi occidentali, è infatti facile pensare alle forti difficoltà che la classe media ha dovuto via via affrontare sotto l’azione di maggiore precarizzazione del lavoro, di maggiore compressione retributiva, della riduzione di opportunità professionali e soprattutto dell’intensa attività di delocalizzazione portata avanti da molte imprese.
Rimandando ad altra sede ogni approfondimento sul tema, è utile però ricordare i due fattori che hanno permesso il rapido sviluppo del modello del mercato globale. Il primo, di natura tecnologica, è costituito dallo sviluppo delle nuove tecnologie legate a internet. Il secondo invece, di natura politica, è consistito nella piena adesione di molte amministrazioni occidentali, che hanno considerato il processo di globalizzazione come il mezzo utile per l’affermazione del modello di democrazia liberale nei paesi uscenti dal blocco socialismo reale.
Dal momento che, come osservato anche da Francesco Alberoni in alcuni suoi interventi, nel modello occidentale la base del sistema democratico è costituita dalla classe media, ne diviene fondamentale la tutela e la valorizzazione.
Tra i possibili interventi a sua difesa ha trovato particolare centralità nel dibattito politico il concetto di reshoring delle attività economiche. Ne sono esempio tutti i diversi interventi portati avanti dall’amministrazione Trump per favorire il rientro di capitali e di produzioni dai paesi asiatici. Il reshoring consiste infatti nello spingere le aziende a riportare nei propri paesi di origine tutte le attività di design, di sourcing e di produzione con l’obiettivo ultimo di incrementare occupazione e reddito.
L’adozione di tali soluzioni appare però ancora frammentaria e spesso si scontra con problematicità legate a tre elementi: il tempo medio lungo di implementazione, l’appesantimento della struttura dei costi per le aziende che rimpatriano e l’impossibilità fattiva di svincolare alcuni processi di procurement da specifiche aree geografiche (i.e. terre rare).
Di fronte a queste difficoltà nel dibattito americano sta prendendo piede una nuova proposta, quella del così detto allyshoring o friendshoring. Essa prevede il rimpatrio solo delle attività strategiche e a maggior valore aggiunto (direzionali, di design, di R&D o ad alto contenuto tecnologico) mantenendo tutte le altre in paesi terzi che condividono lo stesso sistema valoriale e la medesima collocazione geopolitica.
Agendo secondo questa logica gli Stati Uniti riuscirebbero quindi a conciliare due esigenze. La prima, geopolitica, rafforzando a livello globale i paesi guidati da sistemi democratici. La seconda, economica, incrementando la resilienza dei sistemi produttivi e rafforzando la middle class attraverso la creazione di posti di lavoro ad elevata specializzazione e a maggior retribuzione.
Tutti questi aspetti, in aggiunta alle pressioni dei grandi gruppi industriali, che, volendo continuare ad avvalersi di bassi costi del lavoro, non gradiscono l’opzione del reshoring, stanno facendo considerare all’amministrazione Biden questa soluzione come una interessante strada da percorrere nel confronto sempre più serrato con la Cina e con gli altri regimi autocratici.
Se dal punto di vista teorico l’allyshoring si presenta come il migliore compromesso tra esigenze politiche ed economiche, bisogna sottolinearne però alcune criticità.
In primo luogo, continua a considerare il processo di globalizzazione (o di globalizzazione regionale) come lo strumento principe di promozione dei regimi democratici. Questa stessa convinzione è quella che ha portato all’ammissione della Cina nel WTO nel 2001, e che si è dimostrata in molti casi poco più di una semplice chimera. È fondamentale quindi che i vantaggi offerti dall’adesione a questo sistema economico siano controbilanciati dalla condivisione chiara e stringente ad un codice cogente di regole e valori.
La seconda criticità invece è legata alla complessità di implementazione. Per essere sostenibile ed effettivo questo schema di globalizzazione regionale dovrà infatti offrire vantaggi diffusi a tutti i suoi aderenti. Tra di essi si avrà sicuramente la compresenza di paesi molto diversi, se si pensa ad esempio ad aspetti legati al tasso di sviluppo dei sistemi industriali o alla configurazione del mercato del lavoro.
Questi fattori dovranno essere presi in considerazione nella costruzione delle nuove catene del valore, concentrando ad esempio attività labor intensive in paesi ancora in via di sviluppo e quelle ad alto contenuto tecnologico in economie più mature.
Per una corretta progettazione ed implementazione sarà quindi fondamentale il ricorso ad un approccio multilaterale e ad una forte concertazione tra i governi membri dell’alleanza.
Data la ferma adesione del nostro paese alla sfera atlantica e vista la crescente attenzione che questo progetto va riscuotendo, il passo successivo è quello di riflettere su come l’Italia possa trarne giovamento.
Due possono essere le leve su cui intervenire.
La prima consiste nello studiare interventi che possano favorire il reshoring di tutte quelle aziende italiane che nel corso degli anni hanno portato all’estero non solo le attività produttive ma soprattutto quelle direzionali e di R&D. Agendo in questa direzione si darebbe un forte impulso alla creazione di catene del valore nazionali più resilienti agli shock esogeni e più congeniali all’innovazione e alla creazione di posti di lavoro a più alta retribuzione, con conseguente beneficio per i territori che le ospitano.
La seconda invece consiste nell’attrazione di gruppi internazionali, in primo luogo americani, che, coinvolti nel processo di allyshoring, stiano ridisegnando le proprie catene del valore. L’obiettivo diviene in questo senso quello di favorire l’apertura di nuove sedi produttive, legate ad attività sempre ad alto contenuto tecnologico o di particolare valore strategico (pensiamo ad esempio alla produzione di chip, di batterie o alla filiera dello spazio). In questo caso, alla creazione di nuovi posti di lavoro si assocerebbero anche benefici in ambito politico, andando ad includere il sistema paese nelle value chains più strategiche all’interno del nostro sistema di alleanze internazionali.
Il tema dell’allysharing o friendshoring, rappresenta in conclusione un argomento di riflessione molto interessante ed attuale. Si conferma come una potenziale buona occasione per ripensare il sistema di sviluppo economico internazionale. Un sistema, che, rubando un’espressione del prof. Giulio Tremonti che ho particolarmente amato, possa sostituire il concetto di free trade con quello di fair trade.
Guardando all’Italia, risulta fondamentale concepire un piano organico di politica industriale che, attraverso la piena collaborazione tra pubblico e privato, possa inserire saldamente il proprio sistema produttivo al centro di un tale progetto. La massimizzazione dell’interesse nazionale si conferma anche in questo caso il principio guida per chi vuol fare industria e creare sviluppo per la propria comunità nazionale, tenendo ben presente l’elevata competizione che vi sarà tra i sistemi industriali dei singoli paesi coinvolti per aggiudicarsi gli elementi a maggior valore aggiunto di queste nuove catene del valore.
*Federico Laudazi, Charta minuta