ADESSO PARLIAMO DI PRESIDENZIALISMO
Ora che gli italiani hanno scelto, ora che c’è una chiara maggioranza parlamentare in grado di esprimetre un governo guidato da Giorgia Meloni, ora finalmente è possibile parlare del presidenzialismo come riforma necessaria, al di fuori delle polemiche e dei timori che avevano riempito comizi e polemiche nelle ultime settimane prima del voto.
La campagna elettorale estiva, breve e polarizzata, ha fagocitato ben presto anche la proposta di riforma costituzionale che ha per oggetto la forma di governo dell’Italia. L’ipotesi che il centrodestra potesse ottenere i 2/3 dei seggi in Parlamento, ha consentito agli avversari politici (e a tutti coloro che si oppongono alla riforma presidenziale) di poter spingere parecchio sul pedale dell’acceleratore emotivo, trasformando di fatto la forma di governo presidenziale (o semipresidenziale) in una specie di anticamera (automatica) dell’autoritarismo.
Non sono gli Stati Uniti, o la Francia, il modello verso cui tenderebbe l’Italia, bensì la Russia di Putin o l’Ungheria di Orbàn. Ora, se la Russia è effettivamente un sistema semipresidenziale, l’Ungheria è invece una Repubblica parlamentare, come l’Italia dal 1948 a oggi. A dimostrazione che non è la forma di governo a spingere verso torsioni autoritarie, bensì il sistema politico nel suo complesso, il suo stato di salute generale (partiti e sistema della rappresentanza, sistema elettorale, forma di governo, forma di Stato, bilanciamento dei poteri e così via). E a dimostrazione che in campagna elettorale le forzature, le semplificazioni, il ragionare per immagini e simboli porti con sé molto spesso una pesante distorsione della realtà.
Che in Italia lo stato di salute della politica non sia eccellente è a tutti noto. Ed è lecito domandarsi se un capo dello Stato eletto direttamente possa costituire un’ulteriore dose di “veleno” per la nostra democrazia; se, cioè, l’uomo (o la donna) della provvidenza eletto “a furor di popolo” possa piegare i contropoteri e le altre istituzioni.
Tuttavia, è lecito anche ribaltare la domanda e chiedersi se il nostro sistema parlamentare, con capo di Stato e di governo non eletti, con coalizioni “posticce” prima del voto e maggioranze che cambiano continuamente in Parlamento dopo il voto, stia facendo bene alla nostra democrazia. Tradotto in un semplice quesito: l’elezione del capo dello Stato (o del capo di governo, come propone ad esempio Roberto D’Alimonte, con un’ipotesi che piaceva molto a Matteo Renzi) sarebbero un’apripista verso svolte autoritarie o piuttosto un ammortizzatore utile a evitare l’implosione di un parlamentarismo che non funziona più e che continua ad allontanare (questo si, pericolosamente) i cittadini dalla politica – e la politica dai cittadini, con partiti sempre più verticistici e autoreferenziali?
Che piaccia o no, la politica democratica degli ultimi decenni – complici gli effetti delle rivoluzioni mediatiche e tecnologiche, la crisi della rappresentanza e la progressiva individualizzazione della società – ha assunto una potente caratteristica di “personalizzazione”. Oggi il brand politico per eccellenza agli occhi dei cittadini non è più l’ideologia, il simbolo o il programma di partito, bensì il leader, anche nelle sue caratteristiche più intime e personali, appunto. Sotto questo profilo, l’Italia presenta tratti ancora più pronunciati rispetto alle altre democrazie occidentali. Il combinato disposto della fine dello scontro ideologico e del mondo bipolare da una parte, e l’inchiesta di “mani pulite” col conseguente tracollo di un intero sistema dei partiti dall’altra, ha trasformato la politica italiana in una specie di “tabula rasa”, in anni in cui le ideologie si affievolivano, la rappresentanza entrava in crisi e le leadership si mediatizzavano ovunque in Occidente. Questo tornante della storia ha fatto sì che l’Italia diventasse ben presto la patria dei “partiti personali” – come li definì Mauro Calise nel 2000 – vale a dire partiti che nascono (e muoiono) seguendo la parabola individuale del leader-fondatore. Inutile fare l’elenco. Anche solo guardando al panorama di oggi, chiedersi cosa sarebbe Italia Viva senza Renzi, Azione senza Calenda, Impegno Civico senza Di Maio, Forza Italia senza Berlusconi, Cambiamo senza Toti o Coraggio Italia senza Brugnaro avrebbe una risposta fin troppo scontata. Se guardassimo indietro l’elenco sarebbe interminabile passando da Di Pietro, a Monti, a Fini, a Passera, ad Alfano, a Lorenzin e a tanti altri.
E anche quando i partiti non sono personali, sono ormai personalizzati. Vale a dire che possono anche sopravvivere al declino di un leader, ma sicuramente il loro andamento nei consensi è fortemente legato a quello del segretario/presidente. La Lega è sopravvissuta al declino di Bossi, ma quanto ha legato il suo andamento a quello delle leadership dello stesso Bossi prima e di Salvini poi? Il Pd è sopravvissuto alla parabola di Renzi, ma grazie a quella leadership potente e “spiccata” ha raggiunto dapprima il suo massimo e poi il suo minimo storico in una competizione nazionale, tra il 2014 e il 2018. Lo stesso Fratelli d’Italia oggi gode di un consenso molto alto, che è indubbiamente legato al gradimento e alla credibilità della sua leader. Per non parlare del Movimento 5 Stelle che ha contenuto l’emorragia e in seguito recuperato consensi, anche grazie alla nuova leadership di Giuseppe Conte, in pieno bagno di popolarità post-Covid.
Con una riforma presidenziale, questa personalizzazione e leaderizzazione rischierebbe di trasformare il Presidente in un accentratore di poteri, legittimato dal consenso popolare?
Ribadiamolo, non dipende solo dalla forma di governo, anche se – cosa che non emerge mai nel dibattito nostrano – il sistema presidenziale in realtà si basa su un bilanciamento di poteri fortissimo, proprio per compensare quelli del presidente eletto. In ogni caso, è chiaro che chi vuole guardare alla riforma presidenziale con lo sguardo rivolto a Occidente, troverà democrazie mature e in grado di evitare ogni torsione autoritaria. Chi invece vuole volgere lo sguardo a Oriente o al Sud America può trovare diversi esempi di “fallimento del presidenzialismo” – per citare un noto libro degli anni ’90, curato da Linz e Valenzuela.
Premesso che ogni riforma può essere “personalizzata”, cucita sartorialmente per cercare di limare e modellare eventuali storture o eventuali eccessi di potere, resta la questione di fondo: non è la forma di governo che incentiva e spinge verso una transizione di regime, a meno che non crei un tale sbilanciamento dei poteri da accentrare quasi tutte le decisioni-chiave in un solo organo monocratico. Piuttosto, come detto, è lo stato di salute complessivo della democrazia, la sua maturità o la sua eventuale crisi di legittimazione a dover farci temere un eventuale crack democratico. Senza una riabilitazione e rigenerazione della politica e dei partiti agli occhi dei cittadini, il malessere democratico continuerà, riducendo ancora la partecipazione elettorale e politica, incrementando la volatilità e il disorientamento e, verosimilmente, dando nuova linfa a posizioni populistiche e antipolitiche, con una spasmodica ricerca di “novità” connessa a una costante insoddisfazione.
Il primo passo allora dovrebbe essere quello di procedere a un riavvicinamento tra politica ed elettori, che ridia potere a questi ultimi e che eviti che il loro voto sia sistematicamente “dimenticato” e ribaltato dalle forze parlamentari nel formare governi e maggioranze, azzerando di fatto l’accountability di chi governa e alimentando confusione, apatia e l’immagine di una politica autoreferenziale, per nulla incisiva e “respingente” verso i cittadini. Una riforma elettorale in tal senso potrebbe – per quanto possibile in una società individualizzata e narcisistica – ravvivare anche i partiti e il loro rapporto coi territori, superando l’attuale configurazione di partiti come “fan club” di un leader e di cerchi magici che calano candidature dall’alto, paracadutandole a proprio piacimento sul territorio.
Tutto questo va fatto a prescindere dalla forma di governo.
Quest’ultima, però, torna in campo prepotentemente, anche in virtù di questi limiti e di queste storture, che non a caso hanno prodotto “teatrini” non proprio edificanti pure nelle ultime elezioni del capo dello Stato, in Parlamento. È chiaro che dare lo scettro al popolo nell’elezione del capo dello Stato, sotto questo profilo, può aiutare a far recuperare legittimità e credibilità al nostro sistema politico. E, dunque, più che prefigurare uno scivolo verso l’autoritarismo, potrebbe essere uno degli ingredienti-chiave per evitarlo. Per evitare, cioè, che un sistema parlamentare impantanato e “alieno” dal suo popolo finisca per alimentare pulsioni populistico-autoritarie, fino al rischio di mettere seriamente in pericolo l’assetto democratico.
La realtà, dunque, ci dice che è quanto mai urgente ripensare la seconda parte della Costituzione, per evitare che un parlamentarismo ormai privo di accountability, “irresponsabile” agli occhi dei cittadini anche a causa della configurazione attuale dei partiti e della legge elettorale, finisca per dare il colpo di grazia alla legittimazione popolare della nostra democrazia. Un sistema poco incisivo, con un kratos contraddittorio e incoerente e con un demos sempre più apatico e disilluso.
Il reality da campagna elettorale, invece, ci ha detto – con la sua narrazione polarizzante – che la “Costituzione più bella del mondo” non si tocca, men che meno con una riforma presidenziale (o semipresidenziale). Come se il nostro sistema politico godesse di una legittimazione smisurata e facesse segnare livelli di performance da fare invidia al mondo intero.
L’auspicio è che, a urne ormai chiuse, si sotterri l’ascia di guerra, uscendo dal reality e si torni a riflettere con serenità e serietà di una riforma ritenuta necessaria (trasversalmente) da diversi decenni, al fine di evitare che la spirale di delegittimazione compia il suo corso producendo, allora si, pericoli per la democrazia.