Ora sostenere con forza il Back Reshoring
Le fabbriche chiudono, per un periodo, ma altre potrebbero ritornare. Mentre infatti le fabbriche, in buona parte, sono costrette a fermarsi per via della pandemia, la produzione delle merci già da tempo, e da domani forse ancora di più, sta compiendo un percorso di ritorno, con i grandi marchi impegnati nel riportare l’intera produzione sul mercato domestico. L’Italia detiene, buona notizia, il record europeo di rientri in patria e si classifica ai primi posti a livello mondiale, dietro solo agli USA e con UK, nel cosiddetto back- reshoring.
Sono infatti ben 120 le aziende italiane che – secondo la ricerca condotta dal consorzio Uni-CLUB MoRe Back-reshoring Research Group, in collaborazione con Federazione Anie – hanno riportato la produzione in Italia tra il 2000 e il 2015 su 376 casi in Europa e altri 329 in Nord America. Questo processo interessa, al momento, prevalentemente i comparti che avevano esternalizzato l’asset produttivo e organizzativo verso l’Europa dell’Est e la Cina ma è facile ipotizzare che il fenomeno possa estendersi, coinvolgendo settori importanti e strategici.
Uno studio del 2017 condotto dall’Università di Udine, in collaborazione con gli atenei di Catania, l’Aquila, Bologna, Modena e Reggio Emilia, ha analizzato per la prima volta le modalità con cui avvengono i processi di rimpatrio produttivo prendendo in esame 700 casi di reshoring a livello mondiale. Secondo la ricerca le motivazioni che inducono alla rilocalizzazione sono la riduzione dei tempi di consegna (time to market), la prossimità al cliente, il desiderio di far leva sul “Made in”, l’opportunità di automatizzazione dei processi produttivi in madrepatria, la migliore capacità di innovazione di prodotto. Oggi, a queste tematiche, si può sicuramente aggiungere anche la crescente insicurezza generata dalla pandemia, con conseguente blocco delle produzioni e rischio di interruzione della catena del valore a livello globale.
Per altro, già da qualche anno, l’avvento dell’industria 4.0, con le sue tecnologie digitali dal costo pressoché omogeneo in tutto il mondo, sta riducendo notevolmente lo svantaggio competitivo finora subito dai paesi occidentali nei confronti della manodopera estera a basso costo.
Perché allora non incentivare, oggi più che mai, il rimpatrio di produzioni anche attraverso incentivi fiscali e un supporto operativo di soft landing alla rilocalizzazione in Italia? L’impatto, in termini di ricchezza di ritorno ma anche di posti di lavoro generati, potrebbe essere importante, soprattutto di questi tempi.
Ecco allora che tornerebbe utile, adesso, la stesura di un ampio piano di misure di sostegno alla rilocalizzazione nazionale, che può prendere spunto dal “Progetto Reshoring”, avviato da Sistema Moda Italia in collaborazione con ministero dello Sviluppo e PWC e cofinanziato con i fondi dell’Unione Europea. L’esperienza appena citata mira a creare le condizioni necessarie per il rimpatrio delle produzioni in Italia e per l’aumento della produttività in due aree pilota, Puglia e Veneto, nonché a promuovere interventi di assistenza alle imprese e di riqualificazione e formazione del personale attraverso la costituzione di un’accademia. Tra le azioni strategiche anche investimenti in ricerca e sviluppo per la realizzazione di nuove tecnologie a supporto del processo produttivo e creazione delle condizioni per ridurre il costo del lavoro.
Insomma la tendenza è già in atto da alcuni ormai, le buone pratiche da cui prendere spunto non mancano; si tratterebbe ora di dare più forza e ampiezza agli strumenti di accompagnamento, per riportare a casa un pezzo d’Italia e di PIL italiano che, di questi tempi, potrebbe fare davvero la differenza.