Fermare la nuova diaspora dei giovani
Questo saggio della nostra redazione è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.
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La grande recessione 2008-2015 ha riaperto la strada dell’emigrazione italiana. Erano più di trent’anni che le porte verso l’estero sembravano essersi richiuse per i nostri lavoratori. Il fenomeno ha destato, da un paio di anni, interesse e clamore, ha generato disagio, imbarazzo. Nulla è stato fatto. Forse trattenuti da una sorda consapevolezza che le parole, spesso, non corrispondano ai pensieri, ai veri sentimenti: chi può, chi ha le risorse, se ne va; in tanti, tra i giovani, desiderano trovare altrove un percorso, un progetto di vita. Troppo poco lavoro, concorsi troppo difficili, percorsi impervi per stipendi modesti.
La nuova diaspora è stata denominata, giornalisticamente, la «fuga dei cervelli». Una formula superficiale, forse fuorviante. Ma di vero, qualcosa c’è. L’Istat segnala che nell’aggregato cumulato 2009-2018 di 816 mila cancellazioni anagrafiche (che come si vedrà non corrispondono affatto agli effettivi espatriati), ben 182 mila sono laureati, una quota ben superiore alla composizione media della nostra popolazione. Di vero c’è una composizione a maggioranza giovanile; una quota femminile molto maggiore che in passato; una provenienza ben distribuita geograficamente, con la Lombardia in testa, seguita da Veneto, Sicilia, Piemonte, Lazio. Rispetto ai primi anni del nuovo secolo – periodo 1999-2008 – sono raddoppiate le cancellazioni anagrafiche (il cumulato era di 428 mila) e sono diminuiti i rimpatri da 380 a 333 mila. La serie storica dell’ultimo decennio ci fa vedere un fenomeno che inizia in sordina nel 2009 (cancellazioni dall’anagrafe 65 mila circa, di cui 39 mila cittadini italiani), nel 2011 si sale a 82,4 mila (di cui 50 mila italiani); nel 2012 si superano per la prima volta i 100 mila (106.210), con un balzo nel 2013 si giunge a 125,7 mila (di cui 82 mila italiani), e poi 136 mila nel 2014, 147 mila nel 2015 (con gli italiani che salgono oltre i 100 mila); 157 mila nel 2016, 155 mila nel 2017 e di nuovo 157 mila nel 2018, con una quota di italiani di 116,7 mila.
Si è usata la definizione tecnica di «cancellazioni anagrafiche» coniata dall’Istat, perché basta dare un’occhiata ai numeri delle registrazioni all’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), pubblicate dal Ministero dell’Interno, per rendersi conto che il fenomeno della nuova emigrazione ha dimensioni ben maggiori. Se nel 2003, l’AIRE segnalava una diaspora di cittadini italiani registrati poco superiore a 3 milioni, negli anni successivi si assiste a una crescita molto rapida che in quindici anni supera i due milioni (3,6 milioni nel 2007; 4,1 nel 2011; 4,5 nel 2014; 4,8 nel 2016; 4,9 nel 2017, 5,1 nel 2018).
Il professor Enrico Pugliese, nel suo illuminante saggio di maggio 2018, intitolato «Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana» ha attinto ad indagini sulla sanità britannica e lo Statistisches Bundesamt per evidenziare un significativo disallineamento dei dati. In Germania – nei cinque anni dal 2012 al 2016 – risultano nuove iscrizioni di cittadini italiani (essenziali per iscrizione all’università, tessera sanitaria, abbonamenti nei trasporti) per un totale di 274.284 unità, contro le 60.700 cancellazioni registrate dall’Istat verso la Germania. Quasi cinque volte tanto! Allo stesso modo, nella meta preferita dagli italiani, e cioè il Regno Unito, risultano in entrata (dai dati del servizio sanitario) 158.400 persone rispetto alle 39.278 della banca dati Istat. Anche per la Svizzera, Enrico Pugliese cita stime che ipotizzano un numero di nuovi emigranti italiani circa doppio rispetto a quello registrato.
L’incongruenza è spiegabile su base comportamentale. Molti espatriati infatti, non decidono subito di spostare all’estero la propria residenza; preferiscono sperimentare in loco la situazione del mercato del lavoro; magari studiano e dunque non decidono subito di abbandonare il «campo base». Gran parte degli espatriati è dunque, almeno in una prima fase, reversibile, soprattutto perché si muovono prevalentemente all’interno dell’Unione europea. In ogni caso, la dimensione quantitativa del fenomeno, e quindi la sua rilevanza, è ben superiore ai dati ufficiali. Certamente più del doppio. Gli emigrati sono per oltre il 50% giovani, in gran parte donne, per un 30% laureati, vengono da tutte le regioni ma in primo luogo da Lombardia, Veneto Lazio, Piemonte e Sicilia. Anche i diplomati sono rappresentati in percentuali superiori alla media nazionale. La quota meno qualificata cerca lavori nel settore della ristorazione e turismo. È sempre più significativo il settore sanitario (infermieri, tecnici, ma anche medici). Esiste una componente di popolazione anziana che cerca una residenza in luoghi con clima favorevole e basso costo della vita, modesta tassazione (Marocco, Portogallo, Tunisia). In riduzione la «sun migration» verso il nostro Paese, con nuovi fenomeni di ricongiungimento da parte di anziani da Sud verso i figli e nipoti emigrati al Nord, a causa di paesi spopolati e senza servizi per anziani.
Lo studio dei meccanismi sociali di questa nuova emigrazione è solo allo stadio iniziale. Maria Luisa Stazio ha tentato un primo approfondimento motivazionale sugli emigrati a Berlino. Il venir meno delle antiche catene migratorie e delle comunità regionali già insediate all’estero rende più difficile l’aggregazione dei nuovi emigrati. L’emigrazione italiana del dopoguerra ha vissuto varie fasi e diversi modelli (quello contrattuale in Germania e Svizzera senza una vera prospettiva di assimilazione; quello repubblicano in Francia); la vecchia emigrazione aveva una prevalenza operaia, partiva da una situazione di eccesso di manodopera e di intensa crescita demografica nelle aree di origine. Si sostanziava in un forte contributo finanziario in forma di rimesse; trainava la scolarizzazione e la qualità del capitale umano delle terre di origine; generava turismo di ritorno; fu anche fenomeno di arricchimento sociale. L’attuale migrazione non sembra generare flussi visibili di rimesse. Anzi, si segnalano flussi di rimesse al contrario, dal Mezzogiorno al centro Nord e al Nord Europa in caso di giovani che studiano, ma anche di lavoratori in fase di inserimento. Questo fenomeno va ad aggravare la situazione demografica già gravemente recessiva. Le previsioni Istat al 2065 fanno pensare che si tratti di un esodo strutturale, che si stabilizzerà su un flusso di emigrazione annuale di circa 130 mila unità.
Se il sistema nazionale riuscisse a trattenere con occasioni di lavoro adeguate queste risorse umane, già verrebbe annullata la previsione di riduzione di 6,5 milioni di residenti al 2065. Esiste una prima fase di emigrazione che non è stabile, ma connessa per esempio al conseguimento di titoli di studio di alto valore all’estero. Si potrebbe tentare di incidere su questo specifico segmento, indirizzando offerte e bandi mirati. Per far questo, lo sforzo attualmente dispiegato dal sistema nazionale appare largamente insufficiente. Prima di tutto, servono più borse di studio. Si tratta di una grave disapplicazione del dettato costituzionale. Ma si tratta di raggiungere in tempi rapidi dimensioni adeguate al fenomeno, ovvero alcune migliaia di borse di studio ogni anno per finanziare iscrizioni a titoli post-doc, ma anche per titoli tecnici e professionalizzati (ITS per esempio). Sarebbe opportuno richiedere alle fondazioni ex bancarie un impegno massivo e prioritario, coordinato tra di loro, per aumentare il volume di attività in questa direzione. Sarebbe necessario ripensare la programmazione dei programmi per il diritto allo studio delle Regioni in funzione più mirata ai bisogni degli studenti, in modalità immediatamente monetizzabili (meno edilizia e più borse di studio). Sono certamente da prendere a modello bandi per borse di studio con meccanismo contrattuale di rientro in Patria. Le Regioni a maggiore percentuale di espatri dovrebbero utilizzare le loro agenzie per programmi permanenti per assistere con servizi e assistenza lavoratori e studenti trasferiti all’estero, per garantire loro un contatto con il luogo di origine. Il momento di contatto della fornitura del servizio dovrebbe avvenire al momento della cancellazione anagrafica e dovrebbe essere seguita da un flusso di informazioni, offerte di assistenza, servizi linguistici, monitoraggio dell’esperienza concreta dell’espatriato da parte di operatori specializzati.