Gabriele Checchia: Affinché un “nuovo” Libano veda la luce
Già consigliere diplomatico del Ministero della Difesa e ambasciatore all’Ocse e alla Nato, dal 2006 al 2010 Gabriele Checchia ha guidato l’ambasciata italiana a Beirut.
D: Il Libano ha avuto una discreta ripresa dopo la guerra civile terminata nel 1990 anche se non sono mancate altre tensioni, la capitale Beirut è vista come hub mediorientale finanziario e turistico, per l’Italia è un importante partner commerciale. Lei che ha vissuto il Paese da ambasciatore, può darmi una panoramica?
R: Il Libano è Paese ricco delle sue diversità e di grande dinamismo, perlomeno fino ad epoca recente. È un hub che molti hanno considerato anche stanza di compensazione delle tensioni mediorientali, in un’area tormentata, dove soggetti che non potevano esporsi insieme in pubblico trovavano la possibilità di dialogare sottotraccia. Le vicende drammatiche degli ultimi giorni provano però che la situazione oggi non è più la stessa. Negli anni in cui ho avuto il privilegio di rappresentare l’Italia in Libano, dal 2006 al 2010, la situazione era certamente tesa e complessa ma il Paese continuava ad apparire terreno di coesistenza, nonostante le circa 18 diverse confessioni religiose che caratterizzano la popolazione in un duplice senso di appartenenza confessionale e nazionale che da quasi due anni sta mostrando tutti i suoi limiti. Osservando i movimenti di questi ultimi mesi, percepisco una volontà di parte della popolazione – soprattutto dei giovani – di andare verso una società più laica, che non significa rinunciare alla fede ma porre una distinzione più netta fra sfera pubblica e sfera religiosa in un Paese che è una risorsa importante per il Medio Oriente e per il mondo. Giovanni Paolo II non a caso definiva il Libano “Paese messaggio”: voleva significare messaggio di convivenza possibile tra Oriente ed Occidente, tra Islam e Cristianesimo, e ciò è stato per secoli – ad eccezione degli anni della guerra civile tra il 1975 e il 1990 -. A prova della tradizione di convivenza tra le differenti confessioni religiose, sulla base patto non scritto del 1943 che è l’anno di nascita dell’attuale Repubblica libanese, si ebbe una ripartizione delle cariche istituzionali tra cristiani e musulmani: ai cristiani va la presidenza della Repubblica e il capo di stato maggiore, ai sunniti la presidenza del consiglio, agli sciiti la presidenza del Parlamento. Tuttavia dopo gli Accordi di Ta’if, che posero fine alla guerra civile, si andò verso un ridimensionamento della componente cristiana a favore di quella musulmana con un potenziamento del ruolo del presidente del consiglio rispetto al presidente della Repubblica in un contesto in cui la componente cristiana, seppur minoritaria, conserva un peso specifico al di là di quello numerico perché è quella che garantisce di più l’ancoraggio all’Occidente; e la preoccupazione di molti osservatori, tra cui il Papa ed il patriarca maronita, è il profilarsi – sulla scia delle drammatiche vicende in atto – di un ulteriore esodo dei cristiani dal Libano. È rischio che a mio avviso va assolutamente scongiurato, poiché ne soffrirebbe non solo il Libano, ma l’intera Regione mediorientale. Ritengo che il nostro Paese, che gode in Libano di uno straordinario e meritato prestigio, debba fortemente impegnarsi a tal fine.
D: In uno Stato così strategico nel Medio Oriente cosa implica la convivenza tra i cristiani, i musulmani sciiti e i musulmani sunniti?
R: Implica la possibilità di andare avanti per costruire un futuro insieme nel rispetto reciproco, un Islam ed un Cristianesimo orientale in grado di convivere e dunque non basare le proprie relazioni sullo scontro. L’assetto istituzionale pensato da Ta’if va in questo senso proprio per garantire un equilibrio. Tuttavia l’ingresso sulla scena libanese di Hezbollah, all’ inizio degli anni ’80, ha in qualche misura alterato l’equilibrio tra le tre principali confessioni religiose, disponendo Hezbollah non solo di una legittima rappresentanza politica e parlamentare, ma anche per sua stessa ammissione di un vastissimo arsenale. E non a caso il patriarca Rai, nell’omelia dello scorso 5 luglio, ha osservato come Hezbollah (con una forza armata pari, se non superiore, a quella dell’esercito libanese) rappresenti un vero e proprio assedio alla libera decisione nazionale. E questa disparità nelle regole del gioco che avviene da anni, provocata dalla componente sciita che potremmo definire Hezbollah – Siria – Iran, ha provocato un’insofferenza confermata dalle proteste degli ultimi mesi e di questi giorni. Nella mia esperienza ho tra l’altro potuto personalmente constatare che nonostante Hezbollah, anche all’interno del mondo sciita libanese vi sia una parte (cosiddetta quietista) desiderosa di uscire da queste logiche basate sui rapporti di forza ed andare verso una via più laica.
D: L’assassino dell’ex premier Rafiq al-Hariri come ha segnato il Paese e l’area mediorientale?
R: È stato un drammatico attentato che ha fatto da catalizzatore ad un’ondata di protesta popolare che ha poi portato alla fuoriuscita delle truppe siriane dal territorio libanese, dopo quasi trent’anni di occupazione. Dopo tanti anni di invadenza del regime siriano si è pensato che la cosiddetta primavera di Beirut potesse costituire davvero una svolta decisiva nella storia del Paese, sono prevalse tuttavia altre dinamiche caratterizzate da una spaccatura all’interno dei cristiani tra i favorevoli all’aggancio occidentale e i favorevoli a coltivare come alleato principale l’asse Siria-Iran. Nonostante la liberazione dall’egemonia del regime siriano sono dunque rimaste irrisolte molte questioni in sospeso a partire dalla pesante presenza di Hezbollah, e soprattutto delle sue armi, come fattore di condizionamento della libera dialettica democratica.
D: Come sono i rapporti attuali tra Israele e Libano, considerando i confini sigillati?
R: I rapporti sono difficili, non esistono relazioni diplomatiche perché il Libano non riconosce Israele e tra i due Paesi non è mai stato firmato un trattato di pace. Il “confine” è una linea armistiziale che il Libano non riconosce come proprio confine meridionale, c’è la linea blu tracciata nel 2000 dalle Nazioni Unite per certificare l’avvenuto ritiro delle forze israeliane. Restano rapporti molto tesi perché Israele vede nel Libano meridionale un avamposto iraniano, a ridosso dei propri confini settentrionali, attraverso Hezbollah e la gran maggioranza dell’opinione pubblica e del mondo politico libanese vedono in Israele il solo responsabile di ripetuti interventi militari e occupazioni del Paese. Ci sono stati episodi recenti che descrivono tali tensioni: l’attacco di due droni israeliani a Beirut nel settembre del 2019 e le reazioni di Hezbollah con lanci di razzi anti carro contro una base nel nord della Galilea. Alle difficoltà sui confini terrestri si aggiungono difficoltà sui confini marittimi: il mancato accordo sulla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive ha conseguenze sensibili; gli Stati Uniti si erano posti come mediatori circa due anni fa, ma ad oggi non si è raggiunto nulla e ciò ha ricadute negative sulla possibilità che i due Paesi hanno di mettere a profitto i giacimenti di gas che sono a largo delle loro coste. Dinnanzi a questo contesto non possiamo non menzionare il ruolo prezioso svolto da Unifil 2, la missione istituita nel 2006 con la Conferenza di Roma, guidata quasi ininterrottamente da comandanti italiani, che ha contribuito ad assicurare la pace nel Libano meridionale ed ha evitato che il confronto israeliano-libanese (dal 2006 ad oggi) superasse i livelli di guardia.
D: L’intero Governo si è dimesso. Quali scenari potrebbero aprirsi ora nel Paese?
R: Si tratta di uno sviluppo per molti versi prevedibile alla luce delle forti pressioni popolari in tal senso, in atto sin da prima della tragica doppia esplosione al porto di Beirut, ma da questa certamente rilanciate tanto da divenire insostenibili per il Primo Ministro Diab. Questi non ha potuto che prendere atto, devo dire con dignità e con una forte denuncia delle diffuse pratiche di corruttela – in larga misura causa della drammatica congiuntura attuale-, della situazione determainatasi e trarne le logiche conseguenze.
La dimissione dell’Esecutivo così fortemente sollecitata dalla piazza avviene in un momento particolarmente critico per il Paese che si trova a dover affrontare crisi acute su un triplice piano (economico, sociale e sanitario) coniugate a forti pressioni della Comunità Internazionale (delle quali si è fatto esplicito interprete il Presidente Macron nel corso della sua visita di giovedì scorso a Beirut) a mettere infine in atto le riforme economiche e di “goverance” indispensabili a sbloccare gli importanti aiuti finanziari promessi al Libano da ultimo in occasione della Conferenza di Parigi (la Conferenza “CEDRE”) dell’aprile 2018 così come il pacchetto messo a punto dal FMI e gli ulteriori aiuti promessi dalla Conferenza dei donatori dei giorni scorsi.
E tuttavia le dimissioni del Gabinetto Diab non garantiscono affatto la formazione di un nuovo e soprattutto credibile Esecutivo in tempi brevi per almeno due ordini di motivi: il primo è che il Presidente della Repubblica, Michel Aoun, sembra orientato a prendere tempo prima di avviare consultazioni politiche vincolanti puntando – questa almeno è l’impressione di molti commentatori libanesi – a una previa intesa programmatica tra le principali forze politiche (anche quelle ostili all’asse siro-iraniano, e di conseguenza al ruolo svolto da Hezbollah sulla scena politica libanese e sul terreno, che si trovano attualmente all’opposizione); il secondo è che la Costituzione in vigore non fissa al Primo Ministro designato alcuna scadenza per presentare la lista dei Ministri e il programma. Vi è dunque il rischio concreto che la formazione del nuovo governo possa prendere tempi lunghi come del resto già più volte avvenuto, nonostante la drammaticità del momento.
Molti tra i manifestanti chiedono poi elezioni legislative anticipate (così come i principali partiti di opposizione: dal partito cristiano filo-occidentale Kataeb al Partito socialista progressista di Walid Joumblatt). È strada questa anch’essa dalle implicazioni non prevedibili. Elezioni anticipate che avessero luogo in assenza di una previa e tutt’altro che scontata modifica della attuale legge elettorale basata su circoscrizioni ripartite per quote “confessionali”, potrebbero infatti riprodurre un quadro non troppo dissimile dall’attuale in termini di rapporti di forza parlamentari. E dunque non consentire quel ricambio dei vertici e la uscita di scena dei tradizionali “capi clan” per fare posto a figure indipendenti espressione della società civile, con tanta insistenza richiesto da tutti quanti desiderano un Libano finalmente sottratto alle logiche confessionali e allo strapotere per così dire dei “soliti noti”.
Una legge elettorale basata su un sistema “deconfessionalizzato” (oltre che su un tetto alle spese oggi non previsto e sulla istituzione di un credibile ed effettivo organo di supervisione dell’intero processo) troverebbe però nell’attuale Parlamento resistenze pesanti a cominciare da quella di Hezbollah e dei suoi alleati/satelliti, e dunque avrebbe allo stato a mio avviso ben poche possibilità di vedere la luce.
In sostanza, e per concludere, con le dimissioni dell’Esecutivo Diab si apre certamente una pagina nuova ma esse appaiono anche come un forse inevitabile salto nel buio indispensabile perché qualcosa cambi. L’evoluzione del dibattito parlamentare aiuterà senza dubbio a comprendere che piega prenderanno gli eventi. Una strada che potrebbe rivelarsi fruttuosa (ma, come ho sopra accennato, a mio parere non facilmente percorribile) potrebbe essere quella di dar vita in tempi stretti a un governo “neutrale” composto di tecnocrati, incaricato – tra l’altro – della messa a punto di una nuova legge elettorale di taglio “non confessionale” e di assicurare il corretto svolgimento di elezioni legislative anticipate sulla base di tale nuova normativa. È quanto auspica del resto, in dichiarazioni riprese dal quotidiano francofono “L’Orient le Jour”, il leader druso Walid Joumblatt, oggi all’opposizione e certamente tra i politici libanesi più acuti. È sua convinzione che votare sulla base dell’attuale legge elettorale non porterebbe a modifiche sostanziali negli equilibri (potrebbe a mio aversi tutt’al più aversi un travaso di voti all’interno dell’elettorato cristiano dalla Corrente Patriottica Libera/CPL, parte essenziale dell’attuale maggioranza e vicina all’asse Siria-Iran, alle formazioni cristiane come il Kataeb e le Forze Libanesi da sempre critiche verso tale appiattimento sulle posizioni di Damasco e Teheran). Si tratterebbe però di uno spostamento di voti non in grado di incidere sugli equilibri complessivi.
Concludo quindi con un auspicio: quello che, anche nella gravissima situazione attuale, i libanesi sappiano dar prova di quella creatività, scatto d’orgoglio e capacità di sopravvivenza come popolo e come Paese che hanno in così tante occasioni dimostrato in passato, e che da queste dolorose giornate possa alla fine emergere una classe dirigente rinnovata all’altezza delle aspettative di quanti con tanta determinazione si stanno battendo affinché un “nuovo” Libano veda la luce.