I dilemmi dello stato di sicurezza
L’insicurezza è tornata prepotentemente nelle democrazie occidentali, che però devono ancora svegliarsi dal lungo letargo dell’apparente vittoria del diritto sulla forza. Una miscela di paure diffonde un senso di precarietà e di apprensione per il futuro che è reso ancora più pervasivo dai toni parossistici utilizzati dal mercato dell’insicurezza. Di questo mercato può far parte anche il capitale politico, che è sempre più pronto a investire la sua liquidità nelle opportunità offerte dalla paura. Per alcuni interpreti come Giorgio Agamben, lo Stato contemporaneo si è ormai trasformato in uno “Stato di sicurezza” costruito sull’emergenza perenne. In questo nuovo modello statuale, l’insicurezza sarebbe pertanto indotta o comunque utilizzata per trasmettere il messaggio che, in nome della sicurezza e del controllo, si possa rinunciare ad alcune libertà fondamentali. Questa interpretazione contiene delle verità, ma anche delle semplificazioni tardo-moderne. Capita spesso che i difensori di questa tesi tendano talvolta a sottovalutare il livello della minaccia o del rischio, che si tratti di terrorismo o di epidemie, presi dal nobile intento di scongiurare l’implosione dello Stato di diritto sotto la montante pressione della cultura securitaria.
Ma bisogna arrendersi all’evidenza: l’emergenza covid-19 insegna che rimane ancora insuperato il principio romano salus publica suprema lex. Non si può chiedere alla politica di trascurare l’insicurezza collettiva e di rinunciare in qualche modo a neutralizzarla. È uno dei suoi compiti principali. E neppure si può chiedere alla politica di diffondere un ottimismo ingenuo quando la società vive nell’incertezza più totale. In sostanza, la politica non può essere indifferente se è investita quotidianamente da una crescente domanda di sicurezza. La questione semmai riguarda il come dovrebbe rispondere. Il punto è questo: da sempre lo stato di eccezione deve essere misurato nei modi e nei tempi. Il pericolo è che diventi un carattere del modo di governare di questa epoca. E questo passaggio sarebbe permesso dalla sostituzione più o meno tacita dello stato di eccezione con quelle che vengono definite “ragioni di sicurezza”, una vera e propria tecnologia di governo permanente.
Per l’immediato futuro, sarà sempre più frequente scegliere tra libertà e sicurezza. Per questa ragione, è molto opportuno strutturare una procedura costituzionale sullo stato di emergenza. Non tanto per la teoria della separazione dei poteri, da sempre sopravvalutata. La difesa dei diritti individuali non passa per l’indebolimento, ma per il rafforzamento del potere esecutivo, che può diventare un pericolo solo se non viene predisposta una sua completa responsabilità di fronte al popolo e ai suoi rappresentanti. Forse è il momento di recuperare la dottrina antica e medievale del potere limitato.
Detto in altri termini, il rispetto del principio di legalità nei momenti di emergenza non è scontato, ma non è neppure impossibile. Non c’è automatismo tra lo stato di eccezione e la sospensione della rule of law. Certo, si tratta di avere della legalità una definizione più estesa e più matura di quella che la intende soltanto come l’astratto e ideologico primato delle leggi. Avrebbe invece perso in partenza uno Stato che, di fronte a una minaccia, reclamasse per sé nuovi poteri. Il ricorso a poteri speciali è sempre l’anticamera scomoda di una rottura dell’ordine costituzionale e della legalità che lo sostanzia. Il caso della legislazione d’emergenza svela in definitiva l’essenza della costituzione, la natura più intima dell’ordinamento, che sarà tanto più stabile quanto più saprà contemperare le esigenze della regola con quelle dell’eccezione. E questo equilibrio non è per nulla raggiungibile con la delega agli esperti, che è bene che rimangano anonimi suggeritori dei governanti. Insomma, la democrazia securitaria o immunitaria non può passare neppure lontanamente per la spoliticizzazione e la tecnocrazia. Questo sì che può compromettere la salute dello Stato costituzionale. Tutto si può commissariare tranne la responsabilità delle decisioni politiche, del governo politicamente costituito e della sua maggioranza parlamentare, drammatica talvolta ma imprescindibile. Nè si può sospendere il controllo pieno di queste decisioni, politico anch’esso.