Il laboratorio sovranista? Strategico per il centrodestra (e per il Paese)
Se la scelta era quella di introdurre temi forti in questa smaliziata campagna elettorale, Giorgia Meloni e Matteo Salvini ce la stanno mettendo tutta per alzare l’asticella dei contenuti. Professori no-euro, clausola di supremazia, controllo migranti: l’area identitaria e sovranista del centrodestra si candida a essere il laboratorio vivo della coalizione. Non solo culturale, ma emozionale. Esattamente così. Perché al netto delle cesure dettate dal politicamente corretto, tra i temi maggiormente sentiti tra i più urgenti dalle cosiddetta gente comune, molti fanno capo al rapporto che le istituzioni continentali hanno mal tarato con la popolazione europea soprattutto meridionale.
Un cortocircuito che il ventre del Paese ha avvertito prima ancora degli indici di Borsa. Nella nuova polarizzazione del linguaggio politico, è qui che si gioca la partita elettorale: nella divaricazione sopra-sotto che ha segnato tutte le recenti competizioni occidentali. Tutto questo mentre Silvio Berlusconi fa la spola tra l’Italia e Bruxelles in cerca di una nuova verginità istituzionale – in parte dovuta – in vista di un argine al grillismo. In quest’ottica arriva la sponsorizzazione di Antonio Tajani, presidente Ppe dell’europarlamento, quale premier in pectore di marca forzista.
C’è tuttavia un’idiosincrasia da denunciare. E sta tutta nella comunicazione attuale dell’ex Cavaliere. Suvvia, se il rimedio al populismo dei Cinque Stelle è declinato in una sventagliata di promesse televisive dal fiato corto, c’è di che preoccuparsi. E seriamente. Se la campagna elettorale si risolve in una fiera di meme da condividere sui social, anche quei partner europei che vedono in Berlusconi il possibile traghettatore della post Brexit avrebbero di che riflettere. Dopo la lunghissima crisi non ancora conclusa dell’eurozona, non si può parlare di Ue e Bce come se nulla fosse accaduto. Comunque si giudichi la questione banche nell’ultimo decennio, e a qualsiasi livello, sul campo restano solo imbarazzi che coinvolgono a vario titolo la politica italiana.
E prima ancora che gli economisti sappiano declinare gli scenari futuri, la scelta di Matteo Salvini di candidare Claudio Borghi nell’uninominale a Siena (probabilmente contro il ministro Pier Carlo Padoan) e nel proporzionale ad Arezzo, zona Banca Etruria, arriva all’immaginario degli italiani. Segnale chiaro e netto sia contro le incertezze di Di Maio sul referendum sulla moneta unica, sia verso il giglio magico di Matteo Renzi.
Parlare di clausola di supremazia – sulla scorta del modello tedesco – in questa fase è tutt’altro che una boutade da parte della Meloni: si tratta semmai di una vera e propria esigenza dettata dal quadro internazionale. Dinnanzi “all’America first” di Donald Trump e al rinnovato (e non annunciato lungo tutta la sfida con la Le Pen) sciovinismo della Francia di Emmanuel Macron, l’Italia deve ritrovare un suo ruolo sia in Europa che nel Mediterraneo senza rinunciare ai propri quadri di riferimento e ai suoi doveri come nazione.
Il primato della Costituzione repubblicana sul “ce lo di chiede l’Ue” e la difesa degli interessi del sistema paese rispetto dalle politiche aggressive dei nostri storici alleati, non servono a servono a esasperare il dibattito, tutt’altro. Si tratta semmai di scelte strategiche – e quindi politiche – da disegnare senza ipocrisie. In gioco c’è la sopravvivenza della nostra industria pesante e la capacità delle imprese italiane di competere liberamente nel mercato globale contro i colossi emergenti quali India e Cina. Una guerra fatta di numeri le cui vittime si contano in perdite di posti di lavoro. Nulla di più concreto: nulla di più reale.
Un cortocircuito che il ventre del Paese ha avvertito prima ancora degli indici di Borsa. Nella nuova polarizzazione del linguaggio politico, è qui che si gioca la partita elettorale: nella divaricazione sopra-sotto che ha segnato tutte le recenti competizioni occidentali. Tutto questo mentre Silvio Berlusconi fa la spola tra l’Italia e Bruxelles in cerca di una nuova verginità istituzionale – in parte dovuta – in vista di un argine al grillismo. In quest’ottica arriva la sponsorizzazione di Antonio Tajani, presidente Ppe dell’europarlamento, quale premier in pectore di marca forzista.
C’è tuttavia un’idiosincrasia da denunciare. E sta tutta nella comunicazione attuale dell’ex Cavaliere. Suvvia, se il rimedio al populismo dei Cinque Stelle è declinato in una sventagliata di promesse televisive dal fiato corto, c’è di che preoccuparsi. E seriamente. Se la campagna elettorale si risolve in una fiera di meme da condividere sui social, anche quei partner europei che vedono in Berlusconi il possibile traghettatore della post Brexit avrebbero di che riflettere. Dopo la lunghissima crisi non ancora conclusa dell’eurozona, non si può parlare di Ue e Bce come se nulla fosse accaduto. Comunque si giudichi la questione banche nell’ultimo decennio, e a qualsiasi livello, sul campo restano solo imbarazzi che coinvolgono a vario titolo la politica italiana.
E prima ancora che gli economisti sappiano declinare gli scenari futuri, la scelta di Matteo Salvini di candidare Claudio Borghi nell’uninominale a Siena (probabilmente contro il ministro Pier Carlo Padoan) e nel proporzionale ad Arezzo, zona Banca Etruria, arriva all’immaginario degli italiani. Segnale chiaro e netto sia contro le incertezze di Di Maio sul referendum sulla moneta unica, sia verso il giglio magico di Matteo Renzi.
Parlare di clausola di supremazia – sulla scorta del modello tedesco – in questa fase è tutt’altro che una boutade da parte della Meloni: si tratta semmai di una vera e propria esigenza dettata dal quadro internazionale. Dinnanzi “all’America first” di Donald Trump e al rinnovato (e non annunciato lungo tutta la sfida con la Le Pen) sciovinismo della Francia di Emmanuel Macron, l’Italia deve ritrovare un suo ruolo sia in Europa che nel Mediterraneo senza rinunciare ai propri quadri di riferimento e ai suoi doveri come nazione.
Il primato della Costituzione repubblicana sul “ce lo di chiede l’Ue” e la difesa degli interessi del sistema paese rispetto dalle politiche aggressive dei nostri storici alleati, non servono a servono a esasperare il dibattito, tutt’altro. Si tratta semmai di scelte strategiche – e quindi politiche – da disegnare senza ipocrisie. In gioco c’è la sopravvivenza della nostra industria pesante e la capacità delle imprese italiane di competere liberamente nel mercato globale contro i colossi emergenti quali India e Cina. Una guerra fatta di numeri le cui vittime si contano in perdite di posti di lavoro. Nulla di più concreto: nulla di più reale.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta