Luigi Di Maio e il cerino bruciato: ecco l’apprendista "disastro"
Giù la maschera. È durato fin troppo il tentativo di Luigi Di Maio, ancora fresco d’accredito a Cernobbio, di mostrare il presunto lato moderato del Movimento 5 Stelle. Questi due mesi – e più – di stallo sono stati utili per mettere alla prova i grillini ai tavoli delle trattative e saggiarne la vera natura. Un minuto dopo la chiusura delle urne, Di Maio ha provato a riscrivere le regole del gioco, convinto di poter imporre i propri desiderata agli italiani e all’intero Parlamento. Un comportamento che, vale la pena ricordarlo, era già sfociato in un’inusuale visita al capo dello Stato prima delle elezioni per consegnare la lista dei ministri di un ipotetico governo monocolore a 5 Stelle. Un atto che è sembrato una ridicola intimidazione e che, post-elezioni, è stato declinato in toni perennemente presuntuosi e arroganti verso gli interlocutori.
L’illustre Di Maio, dopo cinque anni di insulti e di minacce di processi pubblici nei confronti della classe dirigente, si è detto non solo “disponibile a parlare con tutti” per formare un governo, ma ha restaurato la vecchia politica dei due forni tanto di moda nei “panifici” della Prima Repubblica. Davvero curioso per un bellicoso movimento anti-sistema che ambiva ad aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Il problema, per il giovane apprendista, è non aver compreso che per ottenere un pane di qualità occorre rispettare gli ingredienti e saperli impastare con pazienza. Altrimenti, si rischia non solo di ottenere un prodotto scadente, ma di rimanere scottati. Il 5 aprile annuncia solennemente: “Noi non proponiamo un’alleanza di governo ma un contratto di governo per il cambiamento dell’Italia. È un contratto sul modello tedesco e che noi proporremo perché vogliamo che le forze politiche si impegnino di fronte agli italiani sui punti da realizzare”. In sostanza, Di Maio pretendeva i voti di altre forze politiche in Parlamento senza tuttavia cedere alcuna poltrona. Credeva che gli altri partiti dovessero andare, in pellegrinaggio, capo chino e battendosi il petto, presso la Casaleggio Associati.
Così, maldestro, Luigi Di Maio ha trascorso qualche settimana a ricattare Matteo Salvini, convinto che sarebbe caduto nella trappola: lasciare la tanto agognata leadership del centrodestra per diventare un subalterno. Ma dalle parti di via Bellerio non hanno abboccato, e non è riuscito il piano – tentato sino all’ultimo secondo – di spaccare il centrodestra. Iniziano, allora, gli insulti a Forza Italia e a Silvio Berlusconi, e la quotidiana rivendicazione della guida del governo. Ripetono come un mantra di essere il primo partito, tentando così di delegittimare il vero vincitore delle elezioni, la coalizione di centrodestra, che ha ottenuto la maggioranza dei voti e dispone di una maggioranza di seggi ben più ampia di quella grillina.
Quella di sedere a palazzo Chigi diventa una vera e propria ossessione, tanto che Di Maio chiude il forno con Salvini e apre al Partito Democratico. Una piroetta degna del miglior Baryšnikov e sicuramente coerente con la storia del Movimento 5 Stelle. Quelli che fino a ieri venivano definiti in modo sprezzante “PDioti” e impresentabili collusi con la mafia, divengono improvvisamente dei potenziali alleati. Ma anche in questo caso, Di Maio vuole di dettare legge in casa d’altri: esige non solo un’alleanza, ma un’alleanza con un Partito Democratico de-renzizzato. L’ex sindaco di Firenze, che di fatto controlla ancora la maggioranza dei parlamentari democratici, riesce a far saltare il dialogo già avviato da Franceschini e Orlando.
A questo punto, Di Maio e il suo cerchio magico si trovano da soli, con il classico cerino in mano. E allora, ecco che ne emerge la reale personalità: quella dei bambini capricciosi e impertinenti che perdono la testa e prendono a sfasciare tutto. Iniziano le urla scomposte, i toni da fine dal mondo, le minacce al presidente della Repubblica. Gridano al golpe, vogliono le elezioni anticipate a fine giugno, anzi no a luglio, rievocano il referendum per uscire dall’euro. Questa è l’affidabilità degli “onesti”. Questa è l’affidabilità di chi vuole governare l’Italia.
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta