Internazionalizzazione e investimenti esteri
Si svolgerà mercoledì 25 maggio 2011 il workshop a porte chiuse “L’internazionalizzazione dell’economia nell’ottica degli investimenti esteri”. Nel corso dell’incontro sarà presentato il discussion paper elaborato da Farefuturo con il Cidem dell’Università Sapienza di Roma, partner scientifico per l’iniziativa.
L’appuntamento è nella sede della Fondazione Farefuturo – via del Seminario 113, Roma – dalle ore 14.00 alle ore 17.00. I lavori saranno aperti dal presidente della fondazione, Adolfo Urso e coordinati da Federico Eichberg, direttore delle relazioni internazionali di Farefuturo. Relazione introduttiva da parte di Roberto Pasca di Magliano, ordinario di economia politica. A seguire, la presentazione di alcuni casi aziendali di particolare rilievo e, in conclusione, il dibattito aperto ai partecipanti.
Di seguito la sintesi degli interventi:
Adolfo Urso (presidente di Farefuturo):
L’Italia ha la maglia nera in materia di attrazione degli investimenti esteri e presenta un gap che la colloca in fondo alle classifiche sia tra i Paesi europei sia, in generale, tra i Paesi avanzati. Eccezione fatta per il 2009 quando alcune contingenze come la pressione fiscale, la crisi mondiale – che ha prodotto l’aumento degli investimenti esteri nel settore immobiliare – e gli incentivi per le fonti energetiche rinnovabili hanno determinato questo picco subito smentito dai risultati successivi che hanno riportato la situazione nella norma, cioè nella negatività dei risultati. La scarsa presenza degli investitori stranieri potrebbe essere ascritta alla mancata crescita, a sua volta dovuta a investimenti insufficienti. Ma è come un cane che si morde la coda, perché gli investimenti vanno dove c’è una maggiore crescita. La situazione si avvita in una spirale di stagnazione che per un Paese avanzato significa decadenza. E i segnali politici in questo senso non sono incoraggianti, poiché le strategie messe in campo, soprattutto davanti al dinamismo di Francia e Germania, evidenziano una chiusura rispetto agli investitori stranieri e per di più in settori non decisivi nell’ambito della competizione internazionale. Con il risultato che gli investitori esteri vengono scoraggiati. La politica dovrebbe capire che tentare di difendere i campioni nazionali significa ancorare l’Italia al fondo alle classifiche industriali.
Roberto Pasca di Magliano (docente di Economia Politica, Università La Sapienza di Roma):
La capacità di attrarre gli investimenti esteri è la cartina di tornasole della credibilità di un Paese. Da un decennio il flusso di capitali si dirige dall’Est verso l’Ovest e non viceversa come accadeva in passato. Sono cambiate le strategie e in un periodo di crisi c’è meno fiducia nelle società straniere. Quelle statunitensi attraggono il numero maggiore di capitali, mentre in fondo alla lista per gli Ide c’è l’Italia. La sua scarsa potenzialità attrattiva è determinata da svariati ostacoli. Tra questi, un’Italia a due velocità che in larga misura contrappone un Nord più appetibile perché competitivo e dinamico a un Sud meno allettante perché pachidermico, disorganizzato e carente di strutture. Ma c’è anche la mancanza di certezza del diritto e un malfunzionamento della macchina della giustizia, l’instabilità politico-istituzionale, la specializzazione produttiva orientata verso settori in cui le economie emergenti sono molto competitive, la struttura dimensionale delle nostre imprese, un insufficiente spazio e raccordo tra ricerca e sviluppo. Dai dati presentati da Pasca di Magliano tra l’altro emerge come proprio il settore dell’alta tecnologia, che nel mondo attira notevoli flussi di capitali, da noi è notevolmente trascurato anche dai privati. Per il docente della Sapienza, la situazione potrebbe migliorare se il Paese realizzasse interventi in grado di difendere i settori strategici, se svolgesse meglio la propria funzione regolatoria, se stimolasse strumenti come il private equity, agevolando le acquisizioni in partnership con i privati, in primo luogo con le banche.
Domenico Arcuri (amministratore delegato Invitalia):
Sulla capacità di attrattiva del Paese gioca anche l’immagine che dà di sé. Occorre lavorare sulla comunicazione perché l’Italia non è soltanto l’immondizia di Napoli che ha fatto il giro del mondo, ma è anche il restauro dei sassi di Matera di cui nessuno parla.
Giancarlo Innocenzi Botti (presidente Invitalia):
Qualche spiraglio di ottimismo c’è. In Corea, dove si è svolta la fiera delle agenzie di internazionalizzazione di tutti i Paesi, l’attenzione verso l’Italia non è mancata, anche tra chi da noi non investe. Questo che l’Italia attrae ma ci sono ostacoli da rimuovere e bisogna trovare strumenti che rendano più concreto l’appeal che il nostro Paese riesce ad avere ancora.
Giancarlo Lanna (presidente Simest):
Perché si dovrebbe investire in Italia. Le grandi imprese internazionali incontrano difficoltà a fare accordi con un sistema come quello italiano fatto in larga misura di piccole e medie imprese. Occorre migliorare i processi produttivi, incoraggiare l’interscambio per facilitare l’ingresso degli stranieri in Italia. Serve una regia unica, portata avanti da un soggetto pubblico istituzionalmente forte.
Zeno Rotondi (responsabile ufficio studi Unicredit):
Occorre migliorare l’attrattività delle singole imprese, sostenere ricerca e sviluppo e a questo proposito c’è una scarsa armonizzazione tra i centri di ricerca universitari e l’industria. Bisogna sostenere la patrimonializzazione e garantire servizi reali all’internazionalizzazione.
Cesare San Mauro (docente Diritto dell’Economia, Università del Salento):
L’articolo 8 bis del decreto omnibus ha rappresentato un salto di qualità in negativo.
Ferruccio Ferranti (amministratore delegato Poligrafico Zecca dello Stato):
Da quello che emerge sembrerebbe che il sistema Paese non esista. Determinate caratteristiche positive che hanno gli italiani se collocate all’interno di un sistema coesa nazionale, identitario che condivide il senso dello Stato sono qualità. Se l’individualismo italiano non è all’interno di un sistema Paese, se non rappresenta gli interessi del bene comune nascono notevoli difficoltà a competere. Creare organismi dove la temporanea minoranza e la temporanea maggioranza possano coesistere e funzionare per dare continuità politico amministrativa nel superiore interesse del paese a prescindere da chi governi che lo guidano per salvaguardare il senso dello Stato.
Massimo Mamberti (già direttore generale Ice):
Le Pmi che hanno permesso all’economia italiana di reggere, sono bravissime a fare tattica (contenimento, spostamento dei mercati) ma non a fare strategia e questo mal si accorda con la politica di attrazione degli investimenti esteri.
Claudio Fava (managing director Cfa Group Limited):
Occorre aiutare le start up affinché siano appetibili ai fini dell’internazionalizzazione, puntando anche sulla formazione. All’estero lo start up fa parte della mission delle banche, da noi invece le banche chiedono le garanzie per finanziare lo start up. Bisogna aiutare le imprese forti e non cercare di imbellettare quelle brutte.
Gianluca Brancadoro (comitato promotore banca del Sud):
Diamo la possibilità all’impresa del Sud di crescere in autonomia. Il problema è l’Italia e ciò che attrae gli investimenti esteri è l’Italia. Ripensiamo non a corsie preferenziali ma a sistemi semplificati.
Gaetano Buglisi (amministratore delegato Energetica spa):
Uno dei problemi più rilevanti che scoraggia gli investimenti esteri è la mancanza di certezza del diritto. Non è possibile che con un decreto si modifichi retroattivamente alcune norme stabilite in precedenza.
Emo Angeloni (presidente The First Brick):
La comunicazione che il nostro Paese fa al suo interno come verso l’esterno è nulla. Tutti parlano del patrimonio culturale e del turismo ma nessuno si è accorto veramente che questa è la vera miniera. Occorre realizzare reti di impresa per valorizzare il loro patrimonio, ma dal punto di vista legale questo è vanificato. Quando modificheremo i problemi di base del Paese? Le banche per esempio comincino a investire sulle imprese che fanno innovazione. Sistema paese, governo, istituzioni, banche e università dovrebbero aprirsi alle imprese. L’impresa non deve limitarsi al know how che viene dall’università ma sviluppare fin dal principio la sua idea di crescita business e di sviluppo, non può essere il contrario.