Introduzione al Rapporto sull’Interesse Nazionale “Italia 20.20”
Questo saggio di Adolfo Urso, vicepresidente del Copasir, è stato pubblicato, come introduzione, nel Rapporto sull’Interesse Nazionale “Italia 20.20″ della Fondazione Farefuturo.
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Questo «Rapporto sull’Interesse Nazionale» lo avevamo predisposto all’inizio dell’anno, prima del Covid-19, ritenendo già allora assolutamente fondamentale che si cercasse di ridefinire l’interesse nazionale in una modalità non divisiva, in un contesto in cui comunque appariva evidente il bisogno di capire quale fosse il destino e il ruolo dell’Italia oggi.
L’emergenza del Covid-19 ha reso tutto ciò impellente, costringendoci, come ben sanno i nostri autori, ad aggiornare i testi alla luce di quanto emerso e a rinviarne la pubblicazione a lockdown concluso. Siamo davvero in una nuova era, oggi ne siano tutti pienamente consapevoli.
Pochi mesi fa avvertivamo il tramonto della vecchia epoca, senza però percepire appieno quale potesse essere la nuova. Ora sappiamo che siamo già «precipitati», purtroppo è il verbo giusto, nella nuova era. E l’Italia non può mancare di definire i suoi interessi e le modalità per tutelarli, nei vari contesti, rispetto alle nuove incombenti e per certi versi drammatiche minacce che vanno comunque interpretate come sfide: da quelle demografiche a quelle sociali, occupazionali, finanziarie, energetiche, economiche, militari. Ogni ambito necessita di un esame approfondito e di proposte innovative, all’interno di uno scenario condiviso. Ogni aggettivo appare riduttivo rispetto a quanto è accaduto e ogni proposta appare insufficiente rispetto a quanto necessario.
Quello che prima era facilmente bollato come «catastrofismo» oggi appare spesso addirittura edulcorato rispetto alla realtà. Quello che prima appariva esagerato appare riduttivo, quello che sembrava impossibile è già avvenuto e in forme più gravi di quanto si immaginasse.
Ricordo la reazione della classe dirigente del Paese quando l’allora presidente Francesco Cossiga pose un quesito che appariva di fantascienza e come tale, con derisione, fu giudicato, da chi non guardava mai oltre la montagna: come sia possibile esercitare la democrazia nel caso in cui il Parlamento non potesse riunirsi. Il presidente «matto», in realtà visionario, aveva posto un quesito a cui nessuno volle rispondere: sorrisi, battute, sarcasmi. Spallucce di sufficienza di coloro che pensano di saperla più lunga degli altri.
Ci siamo ritrovati in una realtà in cui le democrazie occidentali hanno dovuto «decidere» senza che il Parlamento potesse riunirsi: le frontiere chiuse, gli aerei a terra, le navi ferme, le fabbriche ferme, i negozi sbarrati, i cittadini in casa. Sono stati assunti «divieti» inerenti alle libertà fondamentali con dei semplici Dpcm [Decreti del presidente del Consiglio dei ministri NdR], annunciati al Paese in diretta facebook da un presidente del Consiglio eletto dal Parlamento con una coalizione mai suffragata dal voto dei cittadini. Decisioni assunte talvolta con il favore delle tenebre non su qualche aspetto fiscale o di ordine pubblico ma sulle nostre libertà di cittadini su cui si fonda la nostra civiltà giuridica e l’essenza delle nostre società, come nessuno, nemmeno in tempo di guerra, aveva mai fatto, come mai si era immaginato nemmeno nel regime di Orwell.
Quello che sembrava una ipotesi di fantascienza è accaduto! E ora il Paese si chiede cosa potrà accadere ancora: se saremo nuovamente reclusi in casa, quando e come i nostri figli potranno tornare a scuola, se e come le fabbriche potranno produrre, se i cittadini potranno e sino a quando uscire dal proprio comune di residenza e chi potrà entrare e come nei nostri confini e persino nei nostri negozi o nelle nostre abitazioni, congiunti o semplicemente amici. Il mondo si interroga se si tratta di un episodio casuale o di un elemento della nuova guerra fredda, batteriologica, cibernetica, economica, che necessita anche e soprattutto per noi, che siamo più indietro di altri, di nuovi strumenti di intelligence e di governance, per un contesto di conflitto «ibrido» ma «globale».
Noi crediamo che ci si debba, innanzitutto, interrogare su quale sia oggi il nostro «interesse nazionale», per dare risposte non estemporanee anche a quesiti d’ogni giorno e tanto più nell’epoca delle pandemie. Per definire in che modo la Patria possa sopravvivere e, se possibile, consentire ai propri cittadini di vivere senza angoscia e con fiducia la propria esistenza e quella dei propri figli; come si possa esercitare la democrazia e in modo più
efficiente senza restringere il perimetro delle nostre libertà e di diritti conclamati e irrinunciabili, come persino un leader europeo ha osato addirittura pronosticare.
C’è chi dice che siamo in un nuovo dopoguerra e che occorra ricostruire come nel ‘18 o nel ‘45. Sbaglia, per eccesso di ottimismo. Noi siamo ancora in «guerra», lottiamo per la sopravvivenza. E dobbiamo capire come vincere la «guerra» e nel contempo predisporre gli strumenti per ricostruire. Serve un «Consiglio di sicurezza nazionale» simile a quello di altre democrazie da tempo in prima linea in guerre «calde» e «fredde» con strumenti efficaci di informazione e di decisione. In campo educativo, ambientale, sanitario, economico, sociale e produttivo, ovviamente anche militare.
E come in ogni «guerra», ciascuno deve sentirsi «patriota» anteponendo gli interessi generali a quelli particolari, quelli delle future generazioni a quelli della propria, quelli della Patria di sempre a quelli della fazione di oggi.
Ciò significa che debba nascere un «governo di emergenza», come spesso accade in guerra? Non è questo l’argomento di questo Rapporto, che la Fondazione Farefuturo, in onore alla sua denominazione, ha inteso presentare al Paese. Esso ha un obiettivo solo scientifico, nel merito e nel metodo. Mette insieme, per la prima volta, in un confronto a distanza ma non virtuale, personalità di diversa formazione e orientamento, che hanno trascorso una intera vita accademica e professionale su sponde diverse, tutte legittime, al fine di definire, per quanto possibile, aspetti significativi dell’interesse nazionale dell’Italia e degli italiani, ovunque essi vivano, dentro o fuori i confini nazionali, perché l’Italia e gli italiani non sono solo quelli che risiedono dentro i confini ma coloro che hanno nei millenni segnato e spesso indicato la strada della civiltà, ovunque risiedessero o lavorassero. Se l’Unesco riconosce che oltre il 60 per cento dei beni dell’umanità è stato frutto dell’ingegno italiano, ciò significa che la scomparsa degli italiani e comunque la riduzione dell’influenza di essi nel mondo e dell’Italia tra le nazioni, va a detrimento del mondo e delle altre nazioni. Il cibo sarebbe meno gustoso, l’arte meno creativa, l’abbigliamento meno originale, l’architettura piu stantia, la scienza meno innovativa. Il mondo sarebbe meno colorato e meno splendente e meno divertente e meno originale.
La scomparsa degli italiani e comunque la loro decadenza è oggetto di questo «Rapporto» sin dal primo capitolo, laddove si evidenzia la grave centrale questione demografica e quindi la crisi della natalità, aggravata
dalle conseguenze del Covid-19, dal crescere della povertà e della marginalità, a partire soprattutto dalle famiglie.
Primo, quindi, sopravvivere come Italia e come italiani. Per noi e per gli altri, che senza di noi e senza la nostra creatività e la nostra lingua perderebbero molto di quello che hanno e di quello che potranno avere nel futuro. La storia lo insegna, la cronaca lo conferma. Il nostro «Rapporto» è già un segnale di come si dovrebbe procedere, in tempo di «guerra», per quanto ci
riguarda anche in tempo di pace, sempre. Insieme e senza infingimenti, senza pregiudizi e senza tabù.
L’interesse nazionale non può essere definito solo da una parte, per quanto brava essa sia e per quanto in sintonia con la «nazione profonda». In tanti ci hanno provato, anche nel passato recente, in tempi di democrazia e in sospensione della democrazia, qualche volta con apparente ed effimero successo, spesso senza nemmeno quello.
Nei nostri tempi, in tanti hanno parlato di «Partito della Nazione» e qualcuno tra noi ha aggiunto anche della «produzione». Da destra e persino da sinistra. Per quanti sforzi si facciano, in realtà, ogni proposta è apparsa incompiuta e non può che restare incompiuta. Il «Partito della Nazione» può essere solo la Nazione, non una parte, non un partito che si erge ad essa.
Per questo, mettere insieme opinioni, analisi, proposte, ciascuna necessariamente di parte, non serve a collezionare un puzzle, ma a stimolare un confronto – in termini di ricostruzione, potremmo chiamarlo un «cantiere» di idee – in cui si definisca insieme il «piano regolatore», salvo ciascuno poi erigere, in piena libertà e creatività architettonica, il proprio edificio, certamente bello e benfatto, se frutto dell’ingegno italico, sempre più in un ambiente green, cioè rispettoso della natura, di quella dell’uomo ma anche di quella degli altri esseri, che convivono con noi in questo pianeta. Spero che tutti ne siamo più consapevoli, a fronte di una pandemia nata proprio da una violenza dell’uomo nei confronti di altri animali. Regole chiare, poche e ben definite, per lasciare il campo al meglio dispiegarsi delle idee e degli interessi, con i quali abbiamo costituito la nostra civiltà, esempio per il mondo.
Sburocratizzazione, semplificazione, innovazione e ovviamente formazione: sono alcune delle parole chiave che emergono in ogni ambito e che si coniugano con la necessità di far «sistema», oggi più che mai, a tutela del Made in Italy, senza il quale diventeremmo solo un museo all’aria aperta per i nuovi ricchi d’Oriente. Di qui il richiamo allo «scudo» del golden power ed anche la necessità di un «fondo sovrano» e di una nuova mission per Cassa Depositi e Prestiti, con una politica attiva e non rinunciataria che difenda quanto si possa il nostro patrimonio dalle nuove forme di «colonizzazione predatoria», finanziaria, tecnologica, produttiva e digitale, ma che faccia anche emergere «campioni nazionali» capaci di diventare «campioni europei». La scalata a Mediobanca, che a sua volta controlla Generali, è la «madre di tutte le battaglie» per il controllo del sistema finanziario e assicurativo del Paese.
La politica industriale non è il «fantasma dell’Ottocento» che ritorna, bensì l’asse su cui muovere la produzione e far crescere l’occupazione, anche attraverso una appropriata legislazione che favorisca il rientro a casa delle aziende de localizzate, il cosiddetto «reshoring», al fine di ripristinare le filiere produttive e, nel contempo, preservare gli asset strategici, senza i quali il sistema perde competitività globale e diventa ancora più vulnerabile. Per questo è fondamentale salvare la siderurgia italiana e la sua flotta navale, la cantieristica e il sistema manifatturiero, dare soluzione agli oltre 160 tavoli di crisi nazionali, alcuni dei quali si trascinano da anni e di cui è emblematica la vicenda Alitalia, così come l’inerzia nel decidere sul caso Atlantia, con il rischio di perdere persino la gestione del sistema autostradale dopo aver perso la «supremazia» aerea.
I polmoni del sistema finanziario e assicurativo sono sotto mira, come sempre da parte della Francia, una grave situazione proprio nel momento in cui sono assolutamente fondamentali nel dare ossigeno al sistema produttivo, attraverso il flusso creditizio, e garantire la stabilità finanziaria del Paese, attraverso la gestione dei titoli pubblici. Non può sfuggire a chi ha il dovere di guardare lontano come il modello prevalente nelle fusioni industriali franco-italiane, dal caso Fca-Peugeot a quello Luxottica-Essilor, sia pericolosamente inclinato verso Parigi, lasciando intuire che in prospettiva le leve decisionali saranno oltralpe. Ciò rischia di accadere in Borsa Italiana o in Avio, purtroppo anche in Fincantieri, ove qualcuno riuscisse a imporre una riformulazione degli accordi, in prospettiva persino nel settore energetico perché l’Eni fa gola a troppi. «A pensar male ci si azzecca», ribadiva uno che aveva comunque il senso dello Stato. La Francia ci ha senz’altro aiutato nel predisporre i nuovi strumenti europei per fronteggiare la crisi sanitaria ed economica, a cominciare dalla Bce della Lagarde che ha proseguito con vigore, dopo il freno iniziale, proprio sulla strada impressa da Draghi, senza farsi intimorire dalla levata di scudi della Corte tedesca, ma vi è da chiedersi quanto sia la lista della spesa concordata con Macron e «all’insaputa» dei più.
Una nuova politica produttiva è il modo migliore per sconfiggere il virus culturale, altrettanto pericoloso di quello epidemiologico, del «sussidio perenne», malattia infantile del populismo. «Tutti sussidiati» a spese di altri e soprattutto a spese dei prossimi, sembra riproporre le illusioni ideologiche, poi rivelatesi drammatiche, del «tutti proletari» di novecentesca memoria. L’«Impresa Italia» è il dna della nostra Nazione. Tanto più nei momenti di difficoltà, riemerge e con forza.
Debito e disuguaglianze, debito privato e debito pubblico, disuguaglianze tra chi ha e chi produce, tra chi può e chi rinuncia: sono queste le sfide di una Comunità che vuole sentirsi davvero ancora Nazione.
Ciò vuol dire anche recuperare alla produzione coloro che sono nella spirale del debito ed evitare che altre vittime si aggiungano nel «lazzaretto» dell’usura moderna, attraverso una «pace bancaria» che consenta davvero il riscatto sociale e produttivo di chi ha visto il proprio impegno declassificato prima come «insolvenza» e poi come «deteriorato», con la bolla fattuale del fallito. Agire subito è necessario, anche in modo «non convenzionale», per chiudere la drammatica crisi attivata dalla lunga depressione del 2008, che ha segnato in modo più grave proprio il sistema produttivo del nostro Paese, prima che giunga una nuova ondata che tutti i banchieri già temono per la fine di quest’anno.
Certo, non sfugge ad alcuno, quanto sia necessario oggi l’intervento dello Stato per evitare che si accrescano i divari, tra i partner europei e tra le regioni del Paese, tanto più tra ricchi e poveri nella stessa nazione, e quanto importante sia garantire il «reddito minimo vitale» ed anche le opportunità di crescita e di riscatto ai dieci milioni di potenziali poveri della nostra Italia, sempre più giovani e sempre più marginali. Il ritorno dello Stato come espressione della nazione, non certo dello statalismo che ne è la degenerazione, assolutamente da evitare.
Il «piano regolatore» (se non erro una invenzione della città imperiale di Roma) deve essere definito insieme, come ogni Carta statuale. Ed oggi appare chiaro a tutti che la revisione costituzionale possa essere meglio realizzata attraverso una Assemblea Costituente, che potrebbe benissimo essere anche il Senato Costituente nella prossima legislatura, eletto con un mandato specifico, tanto più che il taglio a «duecento» ne facilita i lavori, anche se potrebbe pregiudicarne la rappresentanza senza adeguati correttivi. Questo consentirebbe anche di differenziare i ruoli tra le due Camere, oggi veri e propri duplicati, e rendere più facile e immediato il mandato di governo.
Non quindi un «governo costituente», ma un «Parlamento costituente». Non un «governo di emergenza» ma una revisione istituzionale di emergenza, mentre la Camera esercita in parallelo le funzioni legislative, tanto più al fine di realizzare le riforme sulla base di uno specifico programma di governo, che tutti si augurano e che i vincoli europei ci impongono, come radicalmente riformatore, il quale per avere davvero legittimità dovrebbe comunque essere sancito dal suffragio universale.
Ciascun autore del Rapporto esprime solo le sue opinioni. Noi abbiamo fornito le domande e rispettato le loro risposte, su singoli aspetti di quello che potrebbe essere il nostro «interesse nazionale» in campi diversi e tra loro complementari. Esercizio difficile ma necessario che non pretende ovviamente di essere esaustivo alla prima prova. Soprattutto in un Paese che nasce da una Costituente che ha operato mentre il governo si divideva in fronti ideologici contrapposti, al punto tale che gli uni si riferivano a Washington e gli altri a Mosca, ma credo che ciascuno degli allora costituenti, innanzitutto, tendesse comunque a richiamarsi principalmente alla comune Patria da ricostruire. Generazione educata in altri contesti, frutto di una scuola «idealista»: quanta differenza con un Paese che considera così poco la scuola da averla relegata alla fine, nel capitolo delle riaperture!
Oggi, spero, che non ci si divida tra Washington e Pechino, ma che emerga la consapevolezza che in ogni ambito, certamente in quello della sovranità dei nostri dati, cioè della nostra identità e delle nostre libertà, occorre essere davvero «sovrani e indipendenti».
Introdurre nella nostra Costituzione la clausola di «supremazia nazionale» come nuovo essenziale criterio solidale nel rapporto tra Stato e Regioni, che va ridefinito anche con la cancellazione di ogni «legislazione concorrente», e introdurre parimenti nella Costituzione una clausola di «supremazia nazionale» anche nei confronti della legislazione europea, sul modello tedesco, ci può aiutare a ridefinire la Nazione, le sue priorità e le sue prerogative, il suo sentimento e i suoi consapevoli e trasparenti interessi, sia nel contesto della più grande Patria europea, a cui non possiamo rinunciare, sia nel rapporto con le cosiddette «patrie locali», che non possiamo conculcare senza perdere la specificità della nostra millenaria identità.
Per questo il nostro Rapporto comincia con un progetto che dia impulso alla natalità, senza la quale gli italiani sono destinati in breve tempo alla scomparsa, affronta le tematiche fondamenti della educazione e della innovazione, nella consapevolezza che debba emergere una più consapevole classe dirigente a tutti i livelli (quanto sarebbe necessaria una École nationale d’administration italiana, frutto di un progetto pubblico-privato!) e si conclude con la richiesta di tutelare la nostra identità, quindi la sovranità sui nostri dati, anche attraverso la realizzazione di un sistema di cloud nazionali e quindi europei, con tutta la tecnologia e la normativa che ne consegue. Aspetto questo assolutamente centrale nell’attuale conflitto globale, che differenzia l’Oriente dall’Occidente, evidenziandone quanto differenti siano i valori della persona che si confrontano e purtroppo si scontrano.
La nascita è il presupposto della identità. Noi siamo italiani e quindi europei, siamo europei e quindi occidentali. L’Impero di Roma si concepiva come Impero d’Occidente rispetto all’Impero d’Oriente. I due Imperi dell’antichità, ciascuno culla della propria differente civiltà, si conoscevano, sapevano l’uno dell’altro, ma si svilupparono separatamente con le proprie ineludibili caratteristiche. Con i termini attuali si potrebbero definire, «rivali sistemici».
Ancora oggi, come ieri, noi siamo «questi» e gli altri sono «quelli». Definire la politica estera significa definire lo Stato, perché gli Stati nascono sulla politica estera, sulla delimitazione dei confini, amici e «nemici», e la politica si definisce nel modo con cui ci si confronta con gli altri.
Il declino delle organizzazioni internazionali è fin troppo evidente. Esse hanno segnato lo scorso secolo, suscitando illusioni e delusioni, ma non riescono più a incidere nel nuovo secolo. È evidente il declino dell’Onu e delle sue articolazioni, della Fao e dell’Oms, quest’ultima peraltro con la clamorosa inefficienza e, forse, connivenza con cui ha gestito questa pandemia, troppo a lungo negata e mistificata. È acclarata la paralisi del Wto, il cui round negoziale iniziato nel 2001 ha già sprecato vent’anni, in una globalizzazione che ha acuito i contrasti invece che sanarli e che oggi può ritrovare uno spazio solo se raccoglie l’indicazione del presidente Usa sul commercio «equo» e non solo «libero», anzi «equo» e quindi davvero libero, altrimenti prevalgono le economie sussidiate e guidate dagli Stati autoritari che spesso agiscono in violazione dei diritti di «proprietà intellettuale» ai fini di «colonizzazioni predatorie», talvolta con strategie di dumping, sempre comunque in concorrenza sleale.
Ancora più evidente è il declino dell’Unione europea e della Nato, con la destrutturazione di ogni alleanza, basti rilevare il ruolo destabilizzatore della Turchia, così come lo strapotere dell’asse Berlino-Parigi, consacrato nel Trattato di Aquisgrana.
Tutto ciò rende ancora più importante definire, ora e subito e in modo compiuto, dove stia l’Italia, cosa può fare e con chi per aumentare il suo peso nelle Nazioni Unite, riaffermare il proprio ruolo nella Ue e nell’Alleanza Atlantica, contribuire alla ridefinizione dei loro obiettivi e dei loro partner, delineare un nuovo quadro di alleanze e di azioni, a tutela dei propri interessi nazionali minacciati, fuori e dentro i confini nazionali. Ora che siamo sotto attacco, come a Caporetto, costruiamo la «linea del Piave» con un sano «patriottismo italiano», quindi europeo e occidentale, superando pregiudizi e steccati interni. Consapevoli dei nostri elementi di forza e di debolezza.
L’Italia oggi è contesa, come e più di prima, perché è, nel contempo, terra di «confine» e «ponte» tra mondi diversi e purtroppo spesso contrapposti. Da noi passano tutti i conflitti, come una volta vi giungevano e non a caso tutte le strade. Da noi passa il confine della natalità, tra il Continente più anziano, l’Europa, e quello più giovane, l’Africa, e nel contempo il confine del benessere, tra Nord ricco e Sud povero, con tutte le conseguenze che il duplice divario comporta nella imponente spinta migratoria.
A ciò si aggiunge il confine religioso, segnato ancora una volta dal Mediterraneo, con Roma sede della Cristianità, a fronte della fascia di espansione del fondamentalismo islamico che muove, ancora una volta, attraverso i Balcani e il Mediterraneo.
Tutte le aree di prioritario interesse strategico italiano sono sotto assedio, minacciate, talvolta conquIstate da nuovi imperi regionali, in lotta tra loro anche per la supremazia tra le potenze sunnite. Quanto sta accadendo in Libia si rivela come la peggiore sconfitta dell’Italia Repubblicana e chiama in causa la nostra postura in politica estera, alleanze e nuove minacce. Gli assenti perdono sempre. Vengono sostituiti dai presenti. A Tripoli, in Siria, nel Mediterraneo allargato, in Corno d’Africa come nei Balcani.
La Penisola è, anche, con i suoi porti, l’approdo naturale della «via della Seta», confine storico tra Occidente e Oriente, così come sbocco sui «mari caldi» del nuovo sempiterno Impero Russo. La Cina, attraverso il Canale di Suez ma anche attraverso l’Anatolia, giunge al Mediterraneo Orientale e quindi al mercato più ricco, cioè a quello europeo, così come la Russia passa dal Bosforo e dai Balcani, Turchia e Persia possono essere alleati o avversari; dipende dalla loro postura ma anche dalla nostra. Appunto: qual è la nostra?
L’Italia con l’uscita della Gran Bretagna, diventa l’unica reale potenza marittima d’Europa, mediterranea ma anche atlantica, e nel contempo non dispone più della sponda di Londra nella sua politica europea, mediterranea e atlantica. Come pesare in Europa a fronte dei mutati rapporti di forza? Come far valere le nostre ragioni di nazione culla della civiltà europea e paese fondatore della moderna Comunità a fronte della crescita imponente del debito pubblico che nel 2020 potrebbe superare il 170 percento del Prodotto interno lordo? Serve una politica che tenga insieme i «non garantiti», Paesi del Mediterraneo e Paesi di Visegrad e in prospettiva balcanici, così da arginare lo strapotere tedesco, equilibrare l’asse Parigi-Berlino, arginare le pretese di una politica avara che si spaccia per «frugale».
L’Italia può tornare a contare in Europa nel bene dell’Europa, se definisce i propri interessi nazionali, in modo condiviso, al di là dei governi che si succedono e si succederanno, assumendo un ruolo di «ponte» nel Mediterraneo tra il Mare Nostrum e l’Oceano Atlantico, nel dialogo con Israele e il mondo arabo, sino al recupero della Persia e certamente della Russia, aspettando il ritorno della Turchia ove tramontasse l’impero di Erdogan. In tal senso, grande attenzione alla proposta del presidente Usa sull’esercizio del prossimo G7 allargato a Russia, India, Australia e Corea del Sud e se sarà possibile al nuovo accordo con Tehran che lo stesso
Trump sembra finalmente auspicare, così come al superamento della politica sanzionatoria nei confronti di Mosca. L’Italia avrebbe ancora un grande ruolo, oggi più che mai, quale avanguardia d’Europa e di Occidente,
proprio per la sua natura e la sua storia, per la sua collocazione geografica ed economica, e far valere il suo peso, importante e decisivo, all’interno e ai confini d’Europa e di Occidente.
Noi siamo il punto di approdo delle grandi rotte energetiche, hub del gas europeo, e di quelle migratorie, hub degli sbarchi, delle rotte commerciali come di quelle turistiche, delle infrastrutture materiali, non solo
marittime, e di quelle immateriali, come dimostra il conflitto globale sul 5G con sullo sfondo quello sul predominio nella intelligenza artificiale, termini diventati di pubblico dominio con la «guerra» al Covid-19, combattuta anche con il «distanziamento sociale» e la app «Immuni».
Il nostro patrimonio tecnologico, finanziario, scientifico, industriale fa gola a molti, a troppi: avversari e presunti amici. Noi siamo ambiti, contesi dagli uni e dagli altri, da chi ci vuole mercato di sbocco e da chi vorrebbe acquisire la nostra finanza, il nostro risparmio, e le nostre piattaforme produttive, i nostri porti e le nostre reti ferroviarie, le infrastrutture materiali e quelle immateriali. Noi siamo la «terra» più contesa da parte di tutti. Avversari e amici, vicini e lontani, in quanto consumatori e in quanto produttori. Potremmo anche dire in quanto «popolo di eroi, santi, poeti, artisti, navigatori». Siamo al confine, cioè nel luogo di raccordo, e come altre volte nella storia «preda» di tutti, con il rischio di diventare «vittime» degli uni e degli altri, con qualcuno che si fa proconsole degli uni o degli altri e persino capitano di ventura al soldo degli uni o degli altri.
Proprio per questo, mentre tutto cambia, si rischia che la nostra terra non sia più una Patria: forse resterà lo Stato ma senza nazione, solo per delimitare a chi andranno le spoglie di quel che fu l’Italia.
Quando si è contesi, tanto più aumenta la posta, tanto più si alza il livello della sfida. Delle due l’una. Altre volte nella storia ciò ha diviso il Paese e gli uni e gli altri se ne sono in qualche modo appropriati, utilizzando gli uni contro gli altri. Oppure, se si è consapevoli della propria importanza e dei propri interessi, se prevalgono quelli generali, in quanto definiti e condivisi, si è piu forti con gli uni e con gli altri e si può far valere la propria specificità, direi con più convinzione, la nostra unicità.
Il fatto stesso di essere il «confine» e il «ponte» tra mondi diversi e contrapposti può farci diventare «centrali» e quindi proiettare sul piano globale la nostra presenza, ove ovviamente si fosse uniti, coesi, solidali, coscienti e determinati.
Quando prevale l’interesse generale, i popoli e le nazioni accrescono la consapevolezza di sé e il ruolo nel mondo, quando prevalgono gli interessi particolari, qualcuno diventa anche più ricco ma molti diventano più poveri e nel contempo tutti in prospettiva sono più deboli, esposti, vulnerabili perché più soli di fronte agli altri e di fronte allo scorrere del tempo. Com’è triste affrontare la morte, soli ancorché ricchi.
Il nostro «Rapporto» prova a indicare una strada, nel tentativo di identificare quale sia quella comune, obiettivi, sbuutrumenti e confini.
«20.20 Italia» l’abbiamo definita. Perché riteniamo che sia l’anno di svolta. 2020, significa anche la generazione nata agli albori del Millennio che oggi compie appunto 20 anni, per la quale il futuro appare grigio, peggiore del passato, nella cui ottica dobbiamo definire un progetto per i prossimi 20 anni. Un tempo giusto, meno non si può, più sarebbe troppo.
20.20. È ora!