Italiani tartassati. Patrimoniale? No, grazie
Il 2017 è stato un anno record per le casse dello Stato. Come riportato da Truenumbers, le entrate tributarie sono state pari a 497,002 miliardi di euro, ai quali si aggiungono ulteriori 77,9 miliardi provenienti dalle entrate extra-tributarie. Il totale di 574,902 miliardi di euro rappresenta la cifra più alta mai versata dai contribuenti italiani, circa 10 miliardi in più rispetto al 2016, anno che deteneva questo primato non proprio onorevole. Si pensi, inoltre, che nel 2007 lo Stato incassava circa 100 miliardi in meno e che il trend è in costante aumento se rapportato al 2002. Non è necessario ricordare che l’anno di “svolta” per le casse statali è stato il 2011, con l’avvento del governo Monti, che ha fatto volare il gettito da 489,9 miliardi di euro ai 534,3 miliardi nel 2012.
Questa premessa è necessaria per arrivare ad una considerazione fondamentale: l’erario gode di ottima salute. Anzi, non è mai stato così ricco e, di anno in anno, è sempre più colmo dei soldi degli Italiani, alla faccia della tanto sbandierata riduzione della pressione fiscale. I soldi in cassa ci sono: si dovrebbe riflettere, semmai, su come vengono spesi. Per questo suscita una certa preoccupazione vedere ciclicamente riaffacciarsi nell’agenda politica – è proprio il caso di dire: puntuale come una tassa – l’ipotesi di una patrimoniale. Tale eventualità, come ormai da tradizione, è stata paventata nel corso della presentazione della legge di stabilità alla Commissione europea. Già nel 2017, nella medesima occasione, era circolata la possibilità di una reintroduzione dell’Imu sulla prima casa per i proprietari ad alto reddito. L’applicazione di una patrimoniale è un’ipotesi da scartare in toto, sia per una questione di utilità economica, ma anche per una ragione di principio. Questo tipo di tassa aggredisce la cosiddetta “ricchezza posseduta”, che può comprendere beni immobili – come abitazioni e terreni –, beni mobili – ad esempio, auto, moto e imbarcazioni –, e gli investimenti finanziari. Non è il caso qui di ricordare, per carità di patria, le devastazioni che queste tasse hanno portato nel settore immobiliare – ormai il mattone va perdendo l’antico valore – e nautico, oppure di come l’imposta di bollo sui conti correnti e sui depositi introdotta dal governo Monti abbia di fatto quasi azzerato le rendite dei risparmi.
La CGIA di Mestre ha analizzato una quindicina di patrimoniali che sono state introdotte tra il 1990 e il 2017: l’imposta di registro e sostitutiva; l’imposta di bollo; l’imposta ipotecaria; i diritti catastali; l’Ici, Imu, Tasi; il bollo auto; il canone radio tv; l’imposta sulle imbarcazioni e gli aeromobili; l’imposta sulle transazioni finanziarie; l’imposta sul patrimonio netto delle imprese; l’imposta sulle successioni e sulle donazioni; l’imposta straordinaria sugli immobili; l’imposta straordinaria sui depositi; l’imposta sui beni di lusso. Come segnala Paolo Zabeo, coordinatore dell’ufficio studi della CGIA, «sono già una quindicina le imposte patrimoniali che gli italiani sono costretti a pagare ogni anno. Nel 2017, ad esempio, tra l’Imu, la Tasi, l’imposta di bollo, il bollo auto, eccetera abbiamo versato al fisco 45,7 miliardi di euro. Rispetto al 1990, il gettito riconducibile alle imposte di possesso sui nostri beni mobili, immobili e sugli investimenti finanziari in termini nominali è aumentato del 400%, mentre l’inflazione è cresciuta del 90 per cento. In buona sostanza, in oltre 25 anni abbiamo subito una vera e propria stangata». La tabella seguente, elaborata da Il Nordest Quotidiano, riassume l’evoluzione del gettito derivante dalle imposte patrimoniali dal 1990 al 2017.
Alla luce di questi dati, si dovrebbe semmai riflettere sulla necessità di eliminare almeno alcune fra queste odiose tasse, anziché pensare a introdurne di nuove. Invece, purtroppo, l’Italia sembra voler continuare ad essere il paradiso dei balzelli: la fatturazione elettronica, ad esempio, sebbene non possa essere considerata una patrimoniale, porterà ad ulteriori oneri per lavoratori autonomi e piccole imprese. Il vero cambiamento deve partire da qui: dalla volontà di ridare fiducia a chi produce e investe nel nostro Paese.
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta