La cura alla "febbre gialla" al Sud? Proposte centrate sull’asse destra-centro
Partiamo dalla geografia, dalla cartina politica dell’Italia nata all’indomani del 4 marzo: un Paese spaccato in due, con al Nord il centrodestra che fa da asso pigliatutto e il Sud consegnato mani e piedi legati alla marea a Cinque stelle. Mai come stavolta lo stacco cromatico è evidente, neanche fossero tornati gli anni della guerra campale tra Democrazia cristiana e Pci. D’immediato c’è anzi che il Paese si è riscoperto unito contro gli eredi naturali di quelle due grandi tradizioni politiche confluite alla meno peggio nel renzismo. Le urne hanno certificato lo scollamento tra l’Italia reale e la classe dirigente di una nazione rimasta impantanata in una crisi senza fine e in dispute linguistiche da peggior Novecento.
Se al Nord le richieste di sicurezza e di sostegno concreto al ceto produttivo hanno premiato una certa idea ben riconoscibile – nonché collaudata – di gestione del territorio, al Sud la questione è ben diversa. Le analisi di chi vuole ricondurre “la febbre gialla” targata Di Maio alla proposta del reddito di cittadinanza, non solo sono false quanto le fake sulle code ai Caf a Bari e Palermo, ma mortificano ulteriormente una larga fetta di popolazione che non ci sta proprio a essere derubricata come sfaticata o sorniona. Il malessere diffuso esiste e il solo fatto che esso sia stato intercettato quasi a scatola chiusa dai Cinque stelle dovrebbe essere già un segnale da consegnare ai luminari della scienza politica (e ospedaliera). Perché doveva essere proprio l’elettorato meridionale a essere meglio consapevole dei limiti, talvolta imbarazzanti, manifestati dai sindaci allevati nella “cantera” grillina.
Si fa presto a parlare di Chiara Appendino e delle lacerazioni interne sulla candidatura olimpica di Torino – va da sé, un dibattito da snob per tutto il resto dello Stivale. L’esperienza di Virginia Raggi alla guida del Campidoglio è sotto gli occhi di tutti, tant’è che le chiare flessioni in termini percentuali del Movimento nella Capitale si leggono a caratteri cubitali. E se il caso Roma è pessimo, nel profondo Sud la faccenda è da mani nei capelli. I cinque anni a Ragusa di Federico Piccitto si chiudono senza registrare alcuna rivoluzione sostanziale, ma con le polemiche finali per l’appalto di un parcheggio sotterraneo a Ibla (uno dei set Rai preferiti dal commissario Montalbano) a soli due mesi dal voto. A Gela, invece, patria di Rosario Crocetta, il sindaco Domenico Messinese è stato addirittura espulso dal M5s perché non avrebbe tagliato – a sé e ai colleghi di giunta – lo stipendio e per aver adottato una linea politica fin troppo filo-Eni. Lo scorso gennaio – in ultimo – Messinese si è visto recapitare un avviso di garanzia circa le presunte irregolarità nella realizzazione di un complesso edilizio.
Insomma, incendiari prima del voto, uguali a gli altri una volta eletti.
Il caso di Bagheria è totalmente differente, ma in peggio. Patrizio Cinque è stato addirittura rinviato a giudizio con l’accusa multipla di turbativa d’asta, falso, abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio e omissione di atti. Al centro della tempesta giudiziaria i rifiuti, ma anche l’affidamento della gestione del palazzetto dello sport e una serie di presunti abusi edilizi che vedrebbero coinvolto addirittura il cognato del sindaco. Per la cronaca, al momento il primo cittadino è autosospeso dal Movimento.
Detto ciò, di una differenza antropologica dei Cinque stelle, manco a parlarne. Lo si è visto finora alla prova dei fatti. Fatti che evidentemente agli elettori meridionali non sono bastati per allinearsi ancora una volta sulle cosiddette opzioni tradizionali. Buona parte della responsabilità stanno ancora in Renzi, che ha soffiato sullo spauracchio grillino per esorcizzare soprattutto gli ultimi anni di errori clamorosi. Un errore di comunicazione evidente, che ha consolidato l’orientamento di quel flusso elettorale transitato dal Pd al grillismo sulla scorta pure di un’azione di governo percepita dai più come inefficace e fumosa.
Anche il centrodestra ha delle chiare responsabilità. L’eccesso di fiducia nei sondaggi, ha disimpegnato di fatto buona parte dei colonnelli al Sud. La presenza, poi, di troppi candidati agli uninominali reclutati al centro (persino centrosinistra) hanno inibito una parte del corpo elettorale in cerca di rinnovamento. Le avanzate di Lega e FdI segnalano, invece, come le campagne elettorali si vincono sulla scorta di progetti culturalmente chiari e capaci di parlare sia al ventre sia al cuore degli italiani. Sono state premiate le forze che hanno intercettato la crescente divaricazione in atto tra la base e l’altezza del tessuto occidentale e il risentimento verso un’Europa che non è riuscita a dar risposte sul versante della crescita economica e dell’immigrazione. In fondo, passare nel giro di pochi mesi, dalla conquista storica della Regione Sicilia con Nello Musumeci presidente, sulla scorta di un asse destra-centro di nuovo conio, ai zero collegi conquistati, qualcosa vorrà pur dire. E cioè: dove il profilo dei candidati è autorevole, la proposta politica consapevole dello zeitgeist attuale, non c’è spazio per i minestroni in salsa pentastellata.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta