La dimensione strategica della sicurezza energetica in Italia.
Come ogni anno, con l’inverno che entra nel vivo, l’Italia è chiamata a fare i conti con la prevedibile crescita della domanda di energia. Accanto alle perduranti criticità che cronicamente si trascinano e riguardano lo squilibrio degli approvvigionamenti di gas naturale, quest’anno per la prima volta si sono palesate le difficoltà della transizione ecologica, il ritorno dell’inflazione (in parte indotta proprio dal prezzo dell’energia), tensioni geopolitiche (Russia e Kazakhistan) e le strozzature della catena del valore. Questi cinque fattori, che pure presi singolarmente erano in grado di esercitare una notevole pressione sulle condizioni di debolezza intrinseca dell’Italia, si sono combinati dando luogo ad un fenomeno distruttivo su scala internazionale di cui ancora facciamo fatica ad intuire la portata.
È noto che il nostro paese ormai da un trentennio pecchi dal punto di vista programmatico delle ampie vedute che avrebbero potuto, almeno in parte, correggere la rotta. Fattori esogeni ed endogeni si sommano mettendo a dura prova linee di difese, la cui sola concezione richiederebbe anni di pianificazione da un punto di vista strategico. Appurata l’assenza di quest’ultima su scala Europea, quasi tutti gli Stati membri sono stati costretti, ancora una volta, ad affidarsi a tatticismi improvvisati senza una regia affidabile affidabile, che spesso nascondono le vere responsabilità imputabili a chi, con grande miopia, ha apparentemente privilegiato gli interessi del proprio universo produttivo (è il caso paradigmatico della Germania), ricavandone tuttavia molto meno di quanto pianificato per una serie di errori (tra cui l’abbandono del nucleare), frutto di immaturità decisoria, che si ripercuotono su tutta l’Unione.
È pur vero che individuare il principale “colpevole” del momento rischia di essere uno sforzo puramente teorico. La complessità del mondo globalizzato unita alle peculiarità del mercato dell’energia, soprattutto dal lato dell’offerta, fanno sfumare i confini delle responsabilità. È noto già da prima che i pochi pozzi propagandistici di Mattei fiorissero nella Pianura Padana, che l’Italia non sia mai stata un importante produttore di idrocarburi e in generale si trovi nella difficile condizione di chi è privo di importanti materie prime. Per questa ragione, anche volendo i volumi di metano estratti nell’Adriatico non potrebbero superare i 5 miliardi di metri cubi in un arco di tempo almeno triennale, che permetta di riallineare la produzione con gli investimenti necessari mai effettuati. Questi ultimi per essere programmati necessitano di un quadro regolatorio omogeneo che garantisca gli operatori dalle giravolte improvvisate della politica, senza certezza del diritto le trivelle rimarranno ferme. Con la liberalizzazione dei mercati dell’energia, l’Italia ha rinunciato ad attrarre considerevoli investimenti di imprese estere dell’oil&gas per le attività di prospezione mineraria: una filiera virtuosa, con il pregio di garantire una piccola protezione nei confronti di tempeste geopolitiche e che avrebbe contribuito ad integrare l’ottimo meccanismo di stoccaggio di cui il nostro paese si è dotato e che con l’autoproduzione ai minimi è destinato ad operare a metà.
Esulano dal destino dei pozzi dell’Adriatico e del canale di Sicilia le scelte attuate su scala Europea che hanno condotto l’Unione nelle mani della Russia. Una condizione di assoluta debolezza, fonte di numerosi interrogativi, che ha visto una crescita dei suoi profili di criticità in corrispondenza delle crisi geopolitiche degli ultimi 15 anni. L’UE oggi ha scelto consapevolmente di vestire i panni del vaso d’argilla e con le tensioni in Ucraina e Bielorussia si trova alla mercè degli eventi: alla prospettiva scongiurata di sanzioni sul gasdotto Nord stream 2, ancora in attesa delle autorizzazioni nonostante la fine dei lavori, si aggiunge la totale indisponibilità dell’Unione ad accodarsi agli Stati Uniti per imporre ulteriori sanzioni alla Russia sull’export di idrocarburi.
Non è paradossale immaginare anzi, che in caso di escalation in Ucraina possa essere Mosca a ridurre o tagliare le forniture, facendo piombare l’Europa in una crisi energetica simile a quelle che negli anni 70’ costarono all’Italia il tracollo dell’industria chimica e il ricorso ad un prestito del Fondo Monetario Internazionale, un MES ante litteram.
Se il ragionamento degli Stati Uniti si inserisce nella convinzione diffusa che il completamento del Nord stream 2 possa più agevolmente compromettere la stabilità economica dell’Ucraina, legata a doppio filo al transito del gas, che verrebbe facilmente aggirata e privata dei mezzi di sostentamento, è tutto da dimostrare l’assunto che la Russia disponga di una produzione di idrocarburi artificiosamente calmierata per scatenare una guerra dei prezzi: Mosca paga lo scotto delle sanzioni imposte durante la prima crisi Ucraina che hanno danneggiato l’industria estrattiva di Stato, già gravata da croniche inefficienze e scarsamente propensa ad attuare quegli investimenti la cui mancanza viene avvertita anche in altri paesi esportatori che, al contrario della Russia, hanno potuto contare su scambi di tecnologia mineraria pressoché illimitati con gli Stati Uniti e l’Europa.
Tutti gli sforzi diplomatici profusi dalle amministrazioni americane per contrastare il progressivo incremento della dipendenza energetica dell’Unione Europea nei confronti della Russia sono falliti e c’è da aspettarsi che presto le valvole del Nord stream 2 verranno aperte, non appena arriverà l’imprimatur amministrativo. Anche il suo gemello meridionale, il South stream in cui Eni giocava un ruolo fondamentale, è riemerso sotto mentite spoglie nel Turkstream che ha comportato un’ipoteca sull’autonomia energetica dei paesi balcanici e cementato i legami tra un ambiguo paese NATO e il più importante fornitore di gas naturale dell’Unione Europea.
C’è da chiedersi se la miopia pianificatrice che ha interessato lo sviluppo dei nuovi gasdotti sia il concorso di più fattori di carattere politico ed economico e delle presunte connivenze che, lungi dall’essere dimostrate, ne hanno accompagnato la realizzazione e da cui nemmeno le voci contrarie possono dirsi immuni.
Oggi il quadro energetico europeo appare irrimediabilmente compromesso. L’inflazione indotta dall’aumento dei prezzi di petrolio e gas naturale rischia di alzare significativamente il livello di scontro sociale e portare all’esasperazione un continente stretto ancora nelle morse della pandemia, ogni tentativo di invertire la rotta o di alzare i toni con Mosca si è tradotto in un simbolico aiuto Americano consistente in una flotta di navi gasiere che coprono appena il consumo giornaliero dell’Unione. In caso di scontro armato tra Russia e Ucraina è l’UE a rischiare le conseguenze peggiori e la consapevolezza di questa ambiguità ormai instillata nelle agende di Capi di Stato e di Governo va al passo con l’inettitudine di istituzioni prive di legittimazione decisionale.
Tutte le soluzioni valutate come compatibili con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica sono state colpevolmente accantonate o sono risultate dei parziali correttivi: il gasdotto TAP è oggi in servizio dopo anni di deliranti boicottaggi ambientalisti e garantisce uno sbocco fondamentale al gas Azero, che in un futuro prossimo potrebbe essere affiancato da quello Turkmeno se la pipeline fosse prolungata sino all’altra sponda del Caspio. EastMed pur non essendo apparentemente necessario dal punto di vista della domanda rappresenta un asset fondamentale di diversificazione degli approvvigionamenti, nonché un importantissimo strumento geopolitico su cui l’Italia avrebbe potuto basare una ancorché limitata influenza. Impossibile non menzionare il futuribile gasdotto transahariano ormai in avanzato stato di progettazione e destinato a collegare la Nigeria all’Algeria, che sarebbe stata la plastica rappresentazione dell’impegno dell’Unione Europea per la pacificazione del Sahel. Al momento non si intravvedono scelte in tal senso neppure da parte dell’Italia che dovrebbe avere tutto l’interesse a sostenere il progetto, pur pagando lo scotto delle continue inchieste della magistratura milanese che hanno flagellato le attività di Eni in Africa, danneggiando la credibilità internazionale del gruppo e del suo management, sottraendo valore al suo primo azionista: lo Stato Italiano.
Un copione che negli ultimi anni si è ripetuto due volte, colpendo gli affari in due paesi fondamentali per la diversificazione delle importazioni di gas naturale. La Nigeria infatti si candida a giocare un ruolo di primo piano anche nell’esportazione del GNL insieme ad Egitto, Angola e Mozambico. L’Algeria rimarrà un partner fondamentale per i prossimi decenni.
Se il Mediterraneo non ha avuto grande fortuna, nemmeno gli sforzi di diversificare in Asia Centrale hanno segnato traguardi importanti. Se di petrolio si parla non si può non citare il giacimento di Kashagan che costò la guida di Eni a Mincato dopo 10 miliardi bruciati nelle profondità del Caspio, per il gas naturale è andata meglio e Karachaganak appare minacciato solo dalle nuvole che si addensano sul futuro del Kazakhistan e che rischiano di compromettere l’attività di siti estrattivi di notevole importanza. Dispute sul controllo dei ricchi giacimenti del Caspio hanno impedito al Turkmenistan di affermarsi come forte esportatore di gas naturale in Europa e ad oggi è improbabile che questo avvenga con la costruzione di un nuovo gasdotto.
La scelta di puntare tutte le fiches sulla Russia ha saturato l’offerta di gas naturale e reso apparentemente sconveniente costruire nuove pipeline. I costi nascosti non contemperano però gli aumenti repentini dei prezzi a cui saremo chiamati a far fronte comune nei prossimi anni in assenza di investimenti su scala globale. Poter contare su una più vasta pletora di fornitori avrebbe permesso all’Unione Europea di prendere una posizione più decisa nei confronti di Mosca, pur non pregiudicando in alcun caso l’importazione di idrocarburi che si sarebbe svolta con un minor rischio di ritorsioni, perché in fondo ad un’economia arretrata e basata sulle materie prime come quella Russa è imperativo vendere per poter comprare.
Un’ulteriore alternativa degna di nota, che vede l’arrendevolezza della Germania far soccombere gli altri Stati membri, è l’uso del nucleare come sostegno all’elettrificazione delle filiere economiche europee. Con la chiusura delle centrali Berlino si avvia a decretare un inverno energetico parzialmente compensato da quei bizzarri strumenti che sono i meccanismi di capacità, pronti a bruciare costosa lignite (se opportunamente sussidiati), quando le nuvole coprono il sole e non soffia vento nei parchi eolici del mare del Nord. Senza contare le conseguenze ambientali drammatiche, sottese a questa scelta immatura che pesa sull’eredità di Angela Merkel, la decisione di rinunciare all’atomo rischia di sommarsi alle strozzature della supply chain che stanno rendendo economicamente impossibile la transizione ecologica, unita all’inflazione che probabilmente ne è diretta conseguenza.
A conti fatti, un corollario di errori da matita blu difficilmente risolvibili nel breve periodo, richiederà nei prossimi anni soluzioni concrete, a partire dai nuovi investimenti nel settore minerario che sarà centrale per assicurare la tenuta sociale più che ipotetiche derive ideologiche destinate a consumarsi a contatto con la realtà, come ogni massimalismo all’esito dell’incontro con la Storia. I sistemi di accumulo da soli non salveranno l’Europa del 2025 e probabilmente nemmeno quella del 2030, la miopia geopolitica condanna l’Unione di oggi e farà lo stesso con quella di domani. È certo che il gas naturale ci accompagnerà ancora a lungo e l’idrogeno non sarà mai prodotto in modo conveniente e senza emissioni se non ricorrendo all’energia nucleare, unico modo di affrontare l’elettrificazione della società post-industriale. Pensare di alimentare il sistema produttivo con i parchi eolici può essere un’utopia ancora più pericolosa di chi predica la chiusura di fabbriche e acciaierie.
Per farsi trovare all’altezza delle sfide del reshoring è necessario garantire quel minimo di stabilità dei prezzi che convinca gli investitori internazionali a scommettere sull’Europa, non solo come terra di consumo ma anche di produzione. Un orizzonte che si avvicina sempre più e che rischia di condannare l’Italia in primis alla desertificazione industriale, con i redditi che non crescono falcidiati da bollette sempre più esose e un’inflazione indotta dai prezzi dell’energia che condiziona in concreto la vita dei cittadini, in nome di un ambientalismo ideologico e pericoloso che sembra aver smarrito la sua carica sociale che in passato l’ha contraddistinto.
Includere nucleare e gas naturale nella tassonomia “verde” della Commissione è una mossa necessaria che dovrà essere integrata con un regime agevolato di aiuti di stato e uno sforzo comune andrà indirizzato allo stoccaggio comune del metano su scala Europea, ad oggi la più importante riserva strategica nel vecchio continente che ha “rinunciato a combattere”.
*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo