La mancata riforma del MES
Nei prossimi giorni il governo dovrà affrontare la questione della sottoscrizione delle modifiche al trattato MES. Il dibattito atteso in Parlamento non sarà semplice e si dà per scontato che i problemi maggiori deriverebbero dalla mancata sottoscrizione del nuovo trattato.
Ma è così?
Se ci si domanda quali siano i nodi che si celano dietro la riforma del MES è agevole rispondere che siamo di fronte ad una incompiuta proprio dal punto di vista istituzionale e che non promette bene per il futuro.
Per comprendere meglio bisogna andare indietro ai giorni della crisi economica e finanziaria, allorquando, nel 2010, furono istituiti due programmi di finanziamento temporaneo a livello europeo per fare fronte alle difficoltà economiche di alcuni stati membri: il meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (EFSM) e lo strumento europeo di stabilità finanziaria (FESF). La differenza tra i due programmi non sta in quello che possono fare, in quanto entrambi erano chiamati a prestare assistenza finanziaria agli Stati membri in difficoltà, bensì nella loro struttura istituzionale. Infatti, il primo era uno strumento comunitario di assistenza e aveva la sua base giuridica nell’art. 122, comma 2, TFUE; il secondo, invece, nasceva da un accordo tra i sottoscrittori di una società di diritto lussemburghese e mancava di ogni collegamento diretto con il diritto dei Trattati europei.
Non a caso, si dovette procedere all’inserimento di un paragrafo nell’art. 136 TFUE (con Decisione del Consiglio Europeo del 25 marzo 2011), per consentire agli Stati membri la cui moneta è l’euro di istituire un meccanismo di stabilità a carattere permanente, precisando che “la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”.
In questo modo si è giunti all’istituzione del Meccanismo europeo di Stabilità (MES) attraverso la sottoscrizione di un apposito trattato (2012), al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’Unione europeo.
Ora, la differenza tra i due meccanismi è incommensurabile: con il primo, lo Stato membro che chiedeva assistenza si obbligava nei confronti delle Istituzioni europee; con il secondo, invece, nei confronti dei governi degli altri Stati membri. Di conseguenza, fu subito evidente che il MES dal punto di vista istituzionale indeboliva oltre misura l’Unione europea, anche perché questa appariva incapace di fronteggiare la crisi economica e finanziaria, e metteva così in discussione l’euro, nonostante apparentemente tendesse a rafforzarlo.
Non è un caso che, non appena ci si avvide di questo errore, si pose il problema di come cercare di recuperare il disastro istituzionale che si era causato nei giorni della paura cagionata dalla crisi.
Le prime reazioni, che servirono a bloccare la speculazione sull’euro e sui titoli del debito degli Stati membri, furono del Presidente della BCE, Mario Draghi, che, prima, nel suo intervento alla Commissione Affari economici e monetari del Parlamento europeo, in data 19 dicembre 2011, dichiarava l’irreversibilità dell’Euro e, dopo, in occasione dell’incontro presso la Global Investment Conference, il 26 luglio 2012, a Londra, pronunciava la celebre frase: “All’interno del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto quanto è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza” (Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough).
Anche la Commissione europea intervenne in modo deciso e nel suo “blueprint for a deep and genuine economic and monetary union. Launching a European Debate” (COM(2012) 777 final/2, 30.11.2012) affermò la necessità di una riforma profonda del coordinamento delle politiche economiche, dal momento che, con riferimento ai processi di legittimazione, si riteneva che il modo di procedere non avrebbe potuto essere dato dal metodo intergovernativo, ma da quello comunitario. La Commissione così poneva in discussione il MES (“non è chiaro dove si situi la responsabilità nei confronti del Parlamento di un livello intergovernativo europeo che cerca di influenzare le politiche economiche dei singoli Stati membri della zona euro”).
La Commissione richiedeva di sottoporre il MES, attraverso l’incorporazione nei Trattati, al controllo del Parlamento e la modifica del trattato avrebbe dovuto comportare anche il rafforzamento della responsabilità democratica della BCE nella sua veste di autorità di vigilanza sulle banche.
La Commissione sembrava porre le premesse per una politica fiscale (di bilancio) europea finanziata, con risorse proprie derivanti da un’imposizione europea (“un potere impositivo mirato e autonomo”) e la creazione “di una struttura analoga ad un ‘Tesoro’ dell’UEM in seno alla Commissione”, al fine di “dare una direzione politica e accrescere la responsabilità democratica”, in modo che l’Unione venisse posta in condizione di resistere a eventuali shock economici. Essa avrebbe altresì avuto la capacità di emettere obbligazioni da cui potrebbero derivare risorse a seguito della “possibilità di emettere debito sovrano proprio dell’UE”.
Questo disegno venne avallato dalla relazione dei cinque Presidenti (Completing Europe’s Economic and Monetary Union. Pubblicato il 12 giugno 2015) e la Commissione lo riprese in un successivo documento (Reflection Paper on the Deepening of the Economic And Monetary Union, COM(2017) 291 del 31 maggio 2017), e portò alla proposta di trasferire le funzioni economico-finanziarie del MES in capo al “Tesoro” e a trasformare il MES nel Fondo Monetario Europeo, dopo la sua integrazione nel quadro giuridico dell’Unione.
A tal fine, venne anche presentata una proposta di regolamento da parte della Commissione (COM(2017)827) che avrebbe risolto la coesistenza tra le Istituzioni europee e un meccanismo intergovernativo permanente come il MES che dava luogo a molteplici aporie decisionali, di responsabilità democratica e di rispetto dei diritti fondamentali.
Inoltre, l’incorporazione del MES avrebbe garantito nel quadro istituzionale europeo anche il sostegno comune (backstop) al Fondo di risoluzione unico, il cosiddetto meccanismo di risoluzione unico che avrebbe rafforzato la credibilità delle azioni del Comitato di risoluzione unico e accresciuto la fiducia nel sistema bancario.
In questo modo, in sostanza, il Fondo monetario europeo si sarebbe affermato come un solido organismo di gestione delle crisi nell’ambito dell’Unione europea, in piena sinergia con le altre Istituzioni.
Tuttavia, la proposta della Commissione sembra essere stata accantonata – non è dato comprendere se per sempre o per un altro periodo, comunque lungo – per andare nella direzione di una revisione del trattato del MES. Infatti, a seguito delle discussioni tenutesi nelle riunioni dell’Eurogruppo (in particolare dicembre 2018 e giugno 2019), e dei vertici euro del 14 dicembre 2018 e del 21 giugno 2019, sono stati definiti i termini generali della riforma del MES, che mantiene la sua attuale struttura come accordo intergovernativo.
Gli emendamenti proposti, che riconoscono ulteriori funzioni di rilievo al MES, perciò, implicano un ulteriore spostamento in sede intergovernativa di poteri che non si giustificano pienamente nelle mani dei governi degli Stati sottoscrittori, mentre avrebbero un ben diverso significato in quelle delle Istituzioni europee.
In particolare, gli emendamenti amplierebbero il mandato del MES sulla governance economica degli Stati membri. Infatti, si consentirebbe al MES di “seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, inclusa la sostenibilità del loro debito pubblico e di effettuare analisi di informazioni e dati pertinenti” (art. 3). Inoltre, grazie all’accordo dell’aprile 2018 tra la Commissione e il MES, relativo alle loro relazioni di lavoro nel contesto dell’assistenza finanziaria agli Stati membri della zona euro, la struttura di governo del MES verrebbe coinvolta nella valutazione della sostenibilità del debito degli Stati membri, fornendo una base giuridica esplicita per la “cooperazione all’interno e all’esterno dell’assistenza finanziaria”. Infine, avendo reso più precisi i criteri di ammissibilità e di condizionalità, potrebbe sussistere una maggiore difficoltà per gli Stati membri nell’accesso all’assistenza finanziaria, senza contare anche il pericolo che il consiglio di amministrazione del MES possa richiedere un margine aggiuntivo se lo Stato membro ha prelevato fondi dallo strumento.
Quanto poi al sostegno del Fondo di risoluzione unico, in misura tale da resistere a una crisi bancaria più pronunciata o generalizzata nell’area dell’euro, questa non rafforza l’Unione bancaria, perché inframmetterebbe forme intergovernative con forme comunitarie. Infatti, lo strumento di sostegno assumerebbe la forma di una linea di credito rotativa, in base alla quale il MES potrebbe fornire prestiti al Comitato di risoluzione unico.
In conclusione, ci si aspettava un rafforzamento dell’Unione economica e monetaria e, invece, l’avere scelto la linea del trattato di revisione del MES, anziché quella dell’inserimento di questo nel quadro istituzionale dell’UE, non va a favore del processo di integrazione europeo, nel quale si punta, sia pure con tutte le imperfezioni del caso, a una maggiore trasparenza del processo di decisione e al rafforzamento dei poteri democratici del Parlamento europeo, anche per la politica economica.
Invero, il trattato di revisione del MES determinerà – nella migliore delle ipotesi – il mantenimento dell’attuale frammentazione dei poteri tra sfera comunitaria e sfera intergovernativa. La sottoscrizione e la ratifica del trattato di revisione del MES, perciò, non porterà ad una maggiore trasparenza istituzionale del sistema europeo. Inoltre, bisogna considerare che anche questo trattato, al pari di quello del 2012, interessa la questione della distribuzione del potere di decisione comune tra gli Stati membri ed è noto che trattati del genere, determinando una cessione di sovranità, senza mettere in chiaro chi effettivamente gestisce le quote di potere politico conferite dagli Stati con simili Accordi, accentueranno l’asimmetria del potere politico di decisione tra i governi e non miglioreranno la qualità dei rapporti tra gli Stati membri, sia in termini di solidarietà e sia di costruzione di un orizzonte europeo comune.
*Stelio Mangiameli, ordinario di Diritto costituzionale – Università di Teramo