La riflessione di un Italiano all’estero
Da oltre un decennio si parla sempre di più e in toni sempre più foschi del flusso costante di italiani che lasciano il Paese per trasferirsi all’estero. Le motivazioni sono le più disparate, si passa da studenti che vogliono proseguire i propri studi in contesti più internazionali, a giovani professionisti alla ricerca di opportunità di affermazione, a persone in difficoltà che portano sulle spalle i segni delle due crisi e di un decennio di politiche economiche restrittive.
Nel mio caso, lo spirito di avventura e l’interesse professionale per lo sviluppo di mercati esteri, mi hanno portato a trascorrere quasi interamente gli ultimi 10 anni in vari paesi europei e non solo.
L’interessante lezione che il Senatore Urso ha tenuto in apertura del nostro corso FormarsiNazione, sull’interesse nazionale e su come altri paesi si stiano muovendo sul tema, mi ha spinto a fare alcune riflessioni che vorrei condividere.
Nella definizione di una strategia per tutela e la promozione dell’interesse nazionale, bisogna tenere conto infatti tra i vari aspetti, anche delle leve su cui si può giocare per la sua implementazione. Tra queste è oggi di particolare rilevanza a mio parere quella costituita dagli italiani che vivono all’estero.
Sulla scorta della mia esperienza diretta ho pensato di poter suddividere i nostri connazionali espatriati in tre macro-categorie: la prima che chiamo quella degli esterofili tout court, la seconda quella degli emigranti, la terza quella delle persone di buona volontà.
Alla prima appartengono in media individui in età universitaria o post-universitaria, generalmente dotati di un elevato livello di formazione. Rientrano in questo gruppo alternativamente giovani che desiderano raggiungere velocemente posizioni di rilievo e ben remunerate, come ad esempio quelle negli organismi comunitari o internazionali oppure individui che, nonostante l’alto livello di preparazione, in Italia riuscirebbero a stento a sottrarsi al precariato e remunerazioni non consoni al loro profilo, un caso su tutti, quello dei ricercatori. Quello che ho osservato dialogando con alcuni di essi è un rapporto spesso quasi controverso con il proprio Paese, che viene vissuto in maniera conflittuale. L’idea stessa di interesse nazionale è sentita come un retaggio novecentesco da superare alla luce di un ben più nobile interesse europeo o di una vaga apolidia propugnata dal main stream del pensiero contemporaneo.
Il secondo gruppo è quello che chiamo degli emigranti. Vi appartengono molto spesso persone che sono state costrette a lasciare il Paese da situazioni di precarietà o di difficoltà economica. I profili professionali sono molteplici si va da operatori della ristorazione, a operai, a liberi professionisti. In questo caso la scelta di emigrare è fortemente subita e giustificata dalla ricerca di una stabilità economica che il nostro mercato interno ormai non è più in grado di assicurare oltre che dalla volontà di offrire maggiori opportunità per il futuro dei propri figli. Essi tendono ad aggregarsi in piccole comunità dove concentrano la maggior parte dei propri rapporti sociali, riproponendo dinamiche che ormai pensavamo di vedere solo in qualche vecchio film di Alberto Sordi. Sono in generale caratterizzati da un forte desiderio di rientrare a casa qualora le condizioni lo permettano e, in alcuni casi, presentano un certo risentimento sia verso l’Italia matrigna che verso il paese ospitante, in cui molto spesso sono tollerati con malcelata sufficienza.
Tra questi due estremi vi è poi il gruppo che ritengo il più numeroso e che mi piace definire delle persone di buona volontà.
Al suo interno vi si possono trovare individui dai profili molto variegati, uomini di impresa, ricercatori, liberi professionisti, operai, manovali, ristoratori. Sono in larga parte persone espatriate alla ricerca di migliori occasioni di realizzazione personale e di accesso a buoni standard di vita. In generale, possiamo affermare che sono lontani da un qualsiasi approccio ideologico al loro stato di espatriati, vivendo molto spesso la propria italianità in maniera positiva se non come un vero e proprio valore aggiunto da sfruttare nel contesto in cui operano. Presentano mediamente un buon livello di integrazione con le comunità locali e valutano positivamente l’opzione di rientrare stabilmente in Italia qualora si presentassero buone opportunità lavorative.
I dati ISTAT per il 2019 certificano la partenza di circa 800.000 italiani nell’ultimo decennio, il 53% del quale con un titolo di studio medio alto e un’età media inferiore ai 35 anni. Di fronte a questi numeri e alle pesanti conseguenze, è inevitabile domandarsi come si possa declinare l’interesse nazionale in riferimento agli italiani trasferitisi all’estero.
A mio giudizio due sono le sfide su cui iniziare a lavorare. La prima e forse la più difficile, è quella di rendere il sistema Italia appetibile e più concorrenziale per i nostri connazionali e per gli stranieri con profili professionali di alto livello. Senza voler entrare qui nel merito di una discussione particolarmente affascinante ma allo stesso tempo molto complessa, sulla base della mia attività lavorativa penso che gli aspetti su cui intervenire in questo senso siano la valorizzazione del mercato interno (in termini salariali e fiscali), la promozione della crescita dimensionale del nostro tessuto produttivo (con aziende troppo piccole per garantire una remunerazione adeguata e sfide professionali reputate interessanti da professionisti e giovani altamente qualificati) e l’incremento del livello di servizio alle imprese da parte della pubblica amministrazione. Agendo decisamente su queste leve si potrebbe pensare di agevolare il mondo imprenditoriale garantendo buone opportunità di crescita e un positivo flusso nei rimpatri.
La seconda sfida consiste invece nel rendere i nostri connazionali che vogliano continuare a vivere all’estero soggetti attivi nella difesa dell’interesse nazionale. A vario livello e in funzione dei singoli profili potrebbero divenire veri e propri ambasciatori del made in Italy e del Paese, attraverso la loro attività professionale, i loro consumi e i loro interessi culturali. Penso in particolar modo a quella categoria che ho chiamato degli uomini di buona volontà, che particolarmente integrata nelle comunità ospitanti e generalmente priva di posizioni ideologiche predefinite, può effettivamente diventare un vero e proprio volano per il miglioramento della percezione dell’Italia nei paesi ospitanti, con rilevanti ricadute in termini economici e di flussi informativi.
La grande priorità che abbiamo tutti di fronte è quella di convincere in primis noi stessi, che l’Italia non è inesorabilmente destinata a diventare solo un paese vacanze. Fare industria, fare commercio, fare agricoltura con successo è possibile anche in questo mondo globale. Non solo ne abbiamo le risorse, le competenze e le capacità. Abbiamo soprattutto la bellezza del nostro Paese e il nostro stile di vita, che, rimossi i freni che stanno bloccando da oltre un ventennio lo sviluppo industriale, possono farci tornare a considerarlo come diceva Dante, il vero e unico “giardino dell’impero”.
*Federico Laudazi, collaboratore di Charta minuta