La sfida del dualismo italiano
Questo saggio di Umberto Ranieri, presidente Fondazione Mezzogiorno Europa, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.
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Nel trentennio che segue la fine del secondo conflitto mondiale, grazie all’intervento straordinario, il divario in termini di Pil pro capite tra il Mezzogiorno e il Nord dell’Italia calò di dieci punti percentuali. Furono costruite infrastrutture essenziali per le regioni meridionali, si promosse una crescita dell’industria con l’insediamento di poli di sviluppo che si pensava avrebbero diffuso una spinta modernizzatrice all’ambiente circostante. L’autorità pubblica costituiva il soggetto con il compito di ridurre le disuguaglianze e aiutare le aree arretrate a svilupparsi.
Questa strategia si affermò negli anni che vanno dal dopoguerra al decennio Settanta attraverso fasi differenti ma tutte costantemente ispirate alla convinzione di poter ridurre il ritardo meridionale. Con il trascorrere degli anni tuttavia, nonostante i massicci investimenti, il divario non scomparve. Non solo. I flussi di spesa pubblica produssero, almeno in parte, più che dinamismo economico, assistenza e clientelismo. L’immagine del Sud cambiò in quegli anni. Lo scrisse in un bel libro Franco Cassano: da arretrato il Sud diventò dipendente e parassitario. Una situazione da cui si tentò di venire fuori con una diversa strategia: spingere il Sud a contare sulle proprie forze, «tenendolo lontano dalle scorciatoie ingannevoli che emergono all’ombra dell’intervento statale».
Questa si riteneva fosse la via per fare emergere le energie più produttive e migliori del Sud. Insomma, l’intervento dello Stato non era più la soluzione, ma diventava il problema. Passività e irresponsabilità erano il risultato della dipendenza di intere aree dai trasferimenti statali. Non mancavano elementi di verità in questa posizione. Si pensi soprattutto alle patologie che accompagnano, con l’invadenza della politica, la spesa pubblica. E tuttavia, come scriveva Cassano, questa posizione attribuiva alla mobilitazione virtuosa delle classi dirigenti locali la capacità di cancellare l’arretratezza, senza interrogarsi anche sugli indirizzi della politica economica nazionale e sulle scelte dell’Unione europea.
Veniamo all’oggi quando conclusa l’esperienza della Cassa e senza significativi risultati la fase definita della «programmazione dal basso», il problema irrisolto del divario appare in tutta la sua gravità. Cosa fare? Su tre aspetti della realtà meridionale è il caso di riflettere. 1) La politica. C’è una questione elementare che sarebbe opportuno considerare quando si solleva il tema della scomparsa del Sud dall’agenda politica del paese. L’Italia al Sud è mal governata. Ne scrisse Robert Putnam un quarto di secolo fa. Gli esempi non mancano. Perché il dragaggio del porto di Napoli è rimasto lettera morta? Perché le risorse europee non vengono utilizzate appieno e per accrescere il patrimonio di infrastrutture del Mezzogiorno? Per lungo tempo, la politica locale si è trasformata in una macchina per l’acquisizione di consenso attraverso la distribuzione di benefici particolaristici e la dispersione della vera e propria ricchezza giunta dall’Europa. Governi nazionali hanno tollerato che ciò avvenisse. 2) La incapacità delle istituzioni meridionali di selezione, progettazione e attuazione di programmi: incapacità che ha portato a perdere la grande occasione di una utilizzazione produttiva dei fondi europei. 3) L’offerta inadeguata di beni pubblici di base come istruzione, giustizia, sicurezza, servizi alle persone e alle imprese ha reso più bassa nelle regioni meridionali la propensione all’imprenditorialità, più alto il costo del credito, penalizzato le imprese operanti su mercati aperti alla concorrenza. Infine c’è da prendere atto che la politica di incentivazione alle singole imprese ha pesato molto sulla finanza pubblica ma non ha condotto molto lontano.
Sono queste le questioni da affrontare per rilanciare una strategia tesa al recupero dello sviluppo delle regioni meridionali. Una strategia che ruoti intorno all’idea che il Mezzogiorno possa diventare la piattaforma dell’Europa in un Mediterraneo che anche con il raddoppio di Suez (che triplica il tonnellaggio complessivo delle merci che transitano) ritrova nuova centralità negli scambi internazionali. A questa prospettiva è interessato il Mezzogiorno che non indulge ad un rivendicazionismo deteriore e chiede investimenti a sostegno dell’istruzione e della ricerca; investimenti per accrescere l’offerta di beni pubblici di base: questo è il Mezzogiorno che va sostenuto e incoraggiato. Considerare il Mezzogiorno una grande questione europea e mediterranea e affrontarla di conseguenza è il modo per tutelare l’interesse nazionale.
Occorre tuttavia un salto di qualità nel modo in cui le forze politiche si misurano con la questione Mezzogiorno.
La sfida al dualismo deve tornare ad essere un elemento centrale del progetto delle forze politiche che si candidano a governare il Paese. Questa la via lungo la quale si ritrovano i nessi con la migliore classe dirigente italiana cattolica, socialista o liberaldemocratica, che fondava la propria azione politica, al di là delle diverse origini culturali e politiche, sul principio che la vera unità dell’Italia sarebbe nata dal superamento del dualismo, dal mettere fine ad una storica arretratezza.