La solitudine. Nelle pagine di Drieu La Rochelle
Restate in casa… ce la faremo…. non è finita…il 13 aprile… no, a maggio… quest’estate chissà…
Il tempo passa, e lo specchio della vita riflette immagini di solitudine. Torna in mente una canzone di Jim Morison: “La solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno”.
Oggi quelli che sanno parlare bene chiamano lockdown questo vuoto che ti circonda, che ti lega come una catena d’aria e di nulla. E resti col silenzio dei tuoi pensieri, dei ricordi, dei sogni di bambino, delle illusioni della giovinezza, dell’incanto o della nostalgia di un amore svanito.
Poeti, scrittori e artisti di ogni epoca hanno descritto lo stato dell’animo di chi è lontano dalla folla, per scelta o per costrizione.
Essere solo forse ti aiuta a leggere, a pensare, a scavare dentro di te negli angoli nascosti e negati. Lacera la coscienza, riapre le ferite eppure ti regala piaceri proibiti.
Ti senti su un’isola. E nelle mani ti trova a sfogliare pagine di Drieu La Rochelle: “Quando sono su un’isola mi sembra di essere nel mio posto ideale, nella terra e lontano dalla terra, nell’umano e lontano dall’umano”.
“La solitudine è un lusso dei ricchi” scriveva Camus. Forse è un rifugio dove talvolta ti piace mimetizzarti, dove si rintanano i vinti, come Brasillach, Celine, o Drieu La Rochelle, appunto.
Non ti aiuta a scuotere il torpore di questi giorni imbalsamati il vecchio Drieu. Ma il fascino della decadenza è come la tristezza, ti uccide e ti fa vivere. È come quel titolo del un libro di La Rochelle, “Fuoco fatuo”. Un racconto che è affresco di una generazione di quell’epoca tormentata, come in parte lo è la nostra stagione.
È l’immagine di una società alla deriva e al tempo stesso la rivolta dell’uomo che non si rassegna, che lotta contro un mondo degradato. Sa di non poter vincere, ma il suo destino è la sfida. È insieme il sogno e la resa.
E torna la solitudine esistenziale come una ribellione al branco in un’altra opera di Drieu La Rochelle “Diario di un delicato”. Fu pubblicato nel 1944, un anno prima del suicidio. È una lunga, intensa, lacerata e lacerante riflessione sulla vita che afferri e ti sfugge. È il ricordo sereno della solitudine di una infanzia lontana, è l’angoscia dell’isolamento crudele agli incroci della vita dopo il crollo delle torri, il tramonto dei miti. È l’abisso della paura e del coraggio. E descrive così, La Rochelle, quest’angoscia, come una condanna o un riscatto:
“Cerco continuamente la solitudine per consegnarmi alla paura. La paura è sempre stata con me. Da bambino mi sono gettato, appena cosciente, nell’abitudine profonda della solitudine. Ma allora non avevo paura, così almeno mi sembra. Mi fermavo per lunghi momenti e ascoltavo il silenzio. La mia attenzione era viva, briosa, mi dava il senso di un crimine squisito, di un furtarello ingegnoso, di un bel tiro: rubavo la gloria intima al mondo.”
Ti immergi nella lettura. Vivi in un mondo che sembra reale ma è fatto di carta, di sogni e di miraggi. Poi accendi la tv e trovi Conte che continua a parlare, Travaglio che pontifica, la Gruber madonnina laica, l’Europa che ti aspetta al varco. E senti che anche oggi ancora tanti morti e che domani… Domani disoccupazione e miseria. Forse rivolta. E tu cerchi di evadere, vuoi tuffarti nei mari azzurri della lettura o nel vortice dei tuoi pensieri. Ed il vecchio Drieu non ti aiuta ad evadere. La sua evasione fu definitiva, lui che evase dalla vita.