La solidarietà? Finanziare lo sviluppo in Africa, non dare false speranze
Parlando di immigrazione da anni molti giornalisti, politici ed intellettuali di sinistra sostengono il grande apporto culturale ed economico che tale fenomeno porta e porterà all’Italia, all’Europa e al mondo Occidentale in genere. Tale miope visione (di quei pochi che ci credono veramente) o ipocrita e falsamente buonista (per il resto della collettività asservita al “politically correct”), è stata da sempre serva di interessi particolari e mai coerente con la realtà (si ricordi ancora il caso Capalbio, roccaforte estiva dei radical chic del PD, ribellatisi all’idea di accogliere una ventina di immigrati), trasformandosi in un male decisamente più deplorevole rispetto al presunto razzismo di cui in questi giorni viene accusata la destra.
Il buonismo, sia italiano che europeo, nei confronti del fenomeno immigratorio, ha di fatto aperto le porte ad un’accoglienza senza alcun progetto che, proprio per tale mancanza di lucidità, uccide due volte. La sua prima vittima è il mondo Occidentale, la seconda tutti i paesi da cui i migranti provengono. Ma vediamo il perché, prendendo proprio questi due punti cardine della propaganda buonista: la cultura e l’economia. La prima tesi dei buonisti è che gli immigrati contribuiscono ad accrescere la multiculturalità dei paesi ospitanti il che è di per sè un bene. Ma un bene per chi?
È stato sicuramente un bene per l’immenso, selvaggio e praticamente privo di popolazione continente americano che grazie ai coloni europei che si insediarono più di 300 anni fa ha avuto il suo primo contributo in termini di civilizzazione, o per l’ancora più sperduto continente australiano dove con gli esuli è nata una nazione multiculturale ed oggi anche tra le più avanzate. Ma in un paese come l’Italia, che custodisce oltre l’80% del patrimonio artistico e culturale mondiale, che ha dato all’umanità alcuni tra i più celebri filosofi, scrittori, artisti, architetti ed ingegneri, la cui storia passa dagli Etruschi alla civiltà Romana, dal Rinascimento alle eccellenze odierne, quale ulteriore e così prezioso contributo si potrà avere dalla multiculturalità importata dal terzo mondo?
E anche se non parlassimo di arte, di letteratura o architettura o meccanica, ma di settori ben più “terreni”, le domande restano le stesse. Perché, chiederei ai buonisti, l’arte culinaria italiana che ha sorpassato quella francese diventando la n.1 del pianeta, avrebbe bisogno del kebab o del tajine? Perché la moda italiana, esempio di eccellenza e di estro creativo ammirata in tutto il mondo necessiterebbe di burka o chador? Quali sarebbero i contributi culturali degli immigrati odierni così straordinari da poter essere importati nel paese di Dante, Raffaello, Leonardo, Caravaggio ma anche di Umberto Eco, di Renzo Piano, di Ennio Morricone? Quali precise lacune o carenze nella cultura italiana colmerebbero gli immigrati del Mali o dalla Nigeria di oggi? Non ci dimentichiamo quanta contaminazione “araba” c’è nella nostra cultura, ma parliamo di quella di secoli fa, quando quei popoli avevano veramente qualcosa da insegnare e tramandare!
La multiculturalità è un concetto straordinario, visto nell’ottica del fenomeno più importante dei nostri tempi, la Globalizzazione. La multiculturalità sta nell’apertura mentale e sociale al diverso, e non alla fusione forzata dei vari – e spesso contrapposti – modi di vivere. La tanto decantata “integrazione” funziona laddove c’è la volontà di integrarsi, mentre nella maggior parte dei casi crea solo scontri, religiosi o etnici che siano. Ormai sono decenni che non ci sono più guerre tra Stati, mentre i conflitti sono diventati regionali, basati sulla volontà di avere una propria identità ed appartenenza in un mondo ormai aperto e senza confini.
Il secondo punto sbandierato dai buonisti è il tanto decantato contributo all’economia degli immigrati, che ha portato anche alla (tristemente) celebre definizione di “risorse”. Risorse che non vengono da un altro paese ma da un altro continente, risorse con usi, conoscenze, istruzione, ritmi e capacità lavorative totalmente differenti. E non è un offesa. Chi ha lavorato in una piantagione di banane conosce i cicli del raccolto, sa valutare il grado di maturazione e la qualità delle banane, ma non quelle dei pomodori pachino, prodotto tipico del sud Italia. È normale.
L’edilizia e l’architettura di una nazione equatoriale è talmente diversa da quella della pianura padana da rendere totalmente inutile la necessità di importare manodopera proveniente da tali paesi. E se si dicesse che bisogna istruire, formare e specializzare gli immigrati per poterli inserire nel tessuto produttivo nazionale, ciò rappresenterebbe un altro immenso errore nonché spreco di risorse pubbliche, in un paese come il nostro dove il tasso di disoccupazione è tra i più altri in Europa e dove il lavoro nero – proprio quello alimentato dagli immigrati – esercita una spinta a ribasso dei salari ben sotto i minimi di legge.
La vera solidarietà, l’unica sana, nobile e non ipocrita, di cui prima o poi i buonisti dovranno prendere atto, è quella di aiutare a casa loro quei popoli che, per un’infinità di motivi storici o sociali, si trovano oggi in difficoltà. Finanziare delle opportunità sul posto, creare impresa, formare le future generazioni, importare know-how e cultura, anziché sradicare i giovani, per lo più uomini, dalla loro terra attraverso il perverso meccanismo dell’accoglienza. Perché il passaparola dei governi buonisti, che raccolgono gli immigrati a poche miglia dalle loro coste per portarli nell’agognato Occidente, non fa altro che desertificare i paesi africani privandoli dalla loro forza lavoro più giovane e riempire le città europee di persone che non conoscono la lingua, non hanno una professionalità da vendere, non appartengono alla cultura locale e a cui non resta che delinquere, spesso non per scelta ma per mera necessità.
*Kiril Maritchkov, avvocato internazionalista