L’Europa delle disuguaglianze
Negli ultimi anni si è acceso fortemente il dibattito dell’opinione pubblica sul ruolo che ha assunto l’unione europea. Rispetto a quelli che erano i presupposti iniziali si è andato sempre più consolidando il pensiero di un sgretolamento dei pilastri fondativi. Uno dei motivi che, sicuramente, ha spinto i cittadini ad uno scetticismo verso l’operato dei delegati di Bruxelles è quello delle disuguaglianze. Cioè della concentrazione della ricchezza reddituale nelle mani di una percentuale sempre più ristretta di persone. Uno studio del World inequality database, un network di un centinaio di ricercatori coordinati dal gruppo che fa capo all’economista Thomas Piketty, mette insieme i dati delle indagini campionarie, della contabilità nazionale e del fisco. Riguarda 38 paesi europei: i 28 dell’Unione europea, più i cinque candidati a entrare – Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Albania – e i cinque che sono fuori dell’Ue, ma hanno con essa stretti rapporti economici come Islanda, Norvegia, Svizzera, Kosovo e Moldavia.
Lo studio copre il periodo che va dal 1980 al 2017, durante il quale il modello europeo è stato messo in discussione per due eventi in particolare, l’integrazione dei paesi ex socialisti dell’est e la grande crisi economica del 2008. Dallo studio emerge una maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di quell’1% che, in questo arco di tempo, si è preso una ricchezza pari a quanto guadagnato da metà della popolazione europea, quella che fa parte della fascia più bassa del reddito. Un aumento dei poveri complessivamente limitato, ma più sensibile nell’est e nei paesi del sud, tra i quali l’Italia. Grazie alle tecniche di misurazione e alla lunghezza del periodo esaminato, dietro queste tendenze il Wid fa emergere tensioni e strappi anche più rilevanti.
Nonostante l’UE “promuova la coesione economica, sociale, territoriale, e la solidarietà tra gli stati membri”, cosi come indicato nei princìpi fondamentali del trattato di Lisbona i dati Wid riferiti al 2017 evidenziano un reddito medio pro capite era sotto i 15mila euro nei Balcani; tra i 15mila e i 30mila nei paesi dell’Europa dell’est e del sud (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna, Cipro e Malta); tra i 30mila e i 45mila nei paesi dell’Europa occidentale e del nord, con Lussemburgo e Norvegia che superavano i 60mila euro (redditi calcolati a parità di potere d’acquisto).
Rispetto ai livelli di partenza, quelli del 1980, le differenze sono ancora presenti e sono abbastanza evidenti. Il blocco dei Paesi del Nord resta ampiamente in vetta con un reddito del 50 per cento più alto di quello della media europea (mentre alla metà degli anni novanta la differenza era solo del 25 per cento); quello occidentale segue a distanza, più alto del 25 per cento; quello del sud, sceso sotto la media europea con la grande crisi del 2008, adesso è il 10 per cento in meno; mentre quello dell’est imbocca una direzione opposta, guadagnando gradualmente terreno ma restando del 35 per cento sotto la media. I paesi ex comunisti entrati nell’Ue hanno registrato, tra il 2000 e il 2017, tassi di crescita annuali medi del 2,9 per cento, mentre nel nucleo originario dell’Europa a 15 il reddito medio pro capite cresceva, negli stessi periodi, dello 0,4 e dello 0,8 per cento.
E’ su questo problema che dovrebbero concentrarsi le politiche sociali.
Guidano la classifica proprio i paesi dell’est: un dato che si può capire, considerando che il punto di partenza era quello di economie socialiste. Ma tuttavia colpisce per la sua portata: in Polonia, nel 2017, il 10 per cento più ricco ha guadagnato il 40 per cento del reddito. Dal 1980 al 2017 la quota del reddito del 10 per cento più ricco è cresciuta ogni anno dell’1,4 per cento nel blocco dell’Europa occidentale, dell’1,3 per cento in quello del sud, del 2,2 per cento nell’Europa del nord e del 2,5 per cento in quella orientale. Ma la crescita è ancora più forte ai livelli più alti, cioè nel “top 1 per cento”, il cui reddito è cresciuto a ritmi del 3,5 per cento all’anno nell’Europa del sud, del 7,5 per cento in quella dell’est.
La capacità di tracciare i dati dei milionari e dei miliardari porta a individuare ritmi di incremento stratosferici quando poi si arriva al top 0,1 per cento oppure al top 0,01 per cento. Pochi individui, al vertice di una piramide distributiva sempre più disuguale.
Alla base della piramide, restano i poveri. Le disuguaglianze si sono riaperte, e molto spesso le tendenze dicono che più cresce il reddito dei ricchi e ricchissimi, più aumenta la povertà.
Nell’insieme, quasi tutti i paesi europei non hanno finora raggiunto gli obiettivi dello sviluppo sostenibile fissati dalle Nazioni Unite, secondo i quali il 40 per cento della popolazione ai livelli inferiori del reddito doveva crescere più della media: solo in Norvegia e in Spagna le persone che fanno parte di questa fascia sono riuscite a tenersi aggrappate al reddito medio, mentre in tutti gli altri paesi il loro reddito è cresciuto meno – molto meno, in casi come l’Italia, dove si sta sotto per 20 punti percentuali.
Dunque, una riduzione minima delle disuguaglianze tra gli stati, e un aumento marcato di quelle al loro interno. In Europa, quindi, c’è più disuguaglianza rispetto a quarant’anni fa. Nell’insieme la quota del reddito andata al 10 per cento più ricco è passata dal 29 al 34 per cento. E lo sviluppo del pil – finché e quando c’è stato – ha premiato l’1 per cento più ricco, che si è preso per sé la stessa fetta della crescita che nel frattempo è andata al 50 per cento “inferiore”.
Di conseguenza sono le politiche sociali nazionali che possono ridurre o aggravare le disuguaglianze.
In realtà è la portata dei diversi sistemi redistributivi – cioè dell’azione statale dopo la raccolta delle imposte – che è disuguale. In questo senso va uno studio pubblicato il 27 marzo dal ministero della sanità francese, che ha mostrato come sia possibile ottenere una riduzione tangibile delle disuguaglianze legate allo sforzo finanziario necessario per trovare un alloggio grazie alla distribuzione pubblica di sussidi abitativi.
I motivi che hanno determinato questo accumulo di ricchezza nelle mani di poche persone sono vari e non tutti legati alla capacità reddituale. Significativo è senz’altro la mancata armonizzazione fiscale che ha drenato capitali verso quelle economie con imposte più basse che ha permesso redistribuzione pro capite più alta ed una maggiore capacità di finanziamento delle domanda aggregata.
Ma ci sono altri motivi strutturali che determinano un disuguaglianze economico sociali a svantaggio delle classi meno abbienti: l’accumulo di conoscenze e di know how sempre più verso il canale privato; mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo da parte del settore pubblico; trasparenza e responsabilità politica; una mancanza di attenzione ai temi sociali da parte delle università; strategie di sviluppo e di conoscenze nelle aree di minor sviluppo del paese; sostenibilità ambientale; rinnovamento delle risorse umane nella pubblica amministrazione; obiettivi di partecipazione strategica dei lavoratori nella gestione delle imprese e nelle sue decisioni.
L’ingiustizia sociale e la percezione della sua insuperabilità sono all’origine dei sentimenti di rabbia e di risentimento dei ceti deboli verso quelli forti con spinte a forme di dinamiche autoritarie. Questo convincimento spiega come l’Europa, al tempo del coronavirus, dovrebbe produrre una azione collettiva che favorisca la riduzione di queste disuguaglianze nel rispetto dei trattati dell’articolo 3 della carta costituzionale.