L'immaginario per il domani
Fare il futuro significa innanzitutto saperlo immaginare. Saper immaginare, per esempio, come sarà il nostro paese fra dieci o venti anni. Ecco perché Farefuturo, per la sua prima summer school, che si è svolta a Frascati dall’11 al 13 luglio, ha scelto come tema l’immaginario: «La politica dell’immaginario e l’immaginario della politica». Un immaginario collettivo che va oltre la politica e che la contiene. Un rapporto che, però, oggi sembra essere in crisi. Forse perché, come hanno detto Adolfo Urso e Federico Eichberg, la politica non viene più pensata ma solo vissuta e le esperienze rimpiazzano le idee e le utopie diventano individuali (dal mito dell’ “uomo nuovo” alla chirurgia plastica). Forse perché si sono esaurite le grandi narrazioni collettive del Novecento, e con loro i grandi partiti “ideologici”, come ha sottolineato il professor Paolo Mancini. O forse perché il nostro immaginario si è “incastrato” (è l’opinione del professor Alberto Abruzzese) e sa produrre solo passato. Ma oggi, nel tempo della Rete, compito del leader politico (non del capo, ma del leader) è sbloccare quelle che Alberto Castelvecchi ha descritto come “matrici di sogni sociali”. Ma da dove partire? Dalla fiducia, intanto. E dalla voglia di innovare. L’Italia, d’altronde, si è sempre saputa trasformare, anzi ha saputo trasformare il mondo, ha anticipato la globalizzazione, come ha ricordato Lucia Annunziata durante l’ultima tavola rotonda della summer school (a cui partecipavano anche Roberto Arditti, Flavia Perina e Antonio Polito). I miti che compongono il migliore immaginario italiano sono ormai patrimonio del mondo, dal Rinascimento alla Dolce Vita. E, purtroppo, ci sarebbe da domandarsi, come ha fatto Santo Versace, oggi a rappresentarci sia invece “Gomorra”.
Dunque il primo passo è guardare al futuro, per progettarlo. E invece viviamo sotto la dittatura dell’oggi: è il “presentismo” , di cui parla Antonio Scurati,che poi si riflette nel “cronachismo” (e la cronaca è solo nera o rosa) che ci impedisce di dare un senso alla realtà e di individuare i grandi nodi, e scioglierli. Quell’ottica del carpe diem da cui ha messo in guardia, nel suo intervento conclusivo Gianfranco Fini. Un problema europeo, dovuto all’accelerazione quasi insostenibile che la tecnologia ha impresso ai nostri tempi e alla «sazietà e alla stanchezza dell’Occidente», ma che in Italia si aggrava a causa di un sistema istituzionale bloccato. Invece è quanto mai urgente declinare l’immaginario al futuro. Ci sono sfide che aspettano di essere affrontate, senza propaganda, senza «la miopia assoluta del semplicismo» e senza la paura del dubbio: uscire dagli schemi ideologici che ci hanno imprigionati per mezzo secolo è un obbligo, adesso. Ora c’è, tanto per citare una (forse la maggiore) di queste sfide, da “pensare” una soluzione alla questione epocale dell’immigrazione, in cui hanno fallito l’approccio inglese dell’auto-organizzazione delle comunità etniche e quello francese dell’assimilazione, e che forse un paese di emigranti, come il nostro, potrà risolvere con formule nuove e più flessibili. Rielaborando il concetto di cittadinanza, per esempio. O quello di identità (c’è una via di mezzo tra la religione di Stato e il relativismo totale: «non possiamo certo pensare di nascondere i campanili delle Chiese perché offendono i musulmani»). E anche l’idea di nazione è da immaginare di nuovo, partendo dalla nostra memoria storica, “scavata” e ristudiata. Perché il passato non può essere solo una palla al piede, non è solo un ostacolo che blocca il futuro. Il passato può essere, anzi deve essere, materiale per costruire una nuova identità nazionale, anche in vista del 2011, in cui si festeggeranno i 150 anni dall’Unità d’Italia. L’importante è iniziare da subito: le ideologie sono finite ma l’immaginario non si può esaurire nel presente. Un impegno da prendere sul serio perché – ha scherzato il presidente della Camera – «fare futuro non deve essere fare finta».
13 luglio 2009