L’isteria contro i "sovranisti"? Non orienta né sterilizza più il dissenso identitario
Dilemmi attuali: a una settimana dai fatti in Baviera hanno vinto i Verdi di Katharina Schulze o l’Alternative für Deutschland? La risposta è tutta da interpretare, soprattutto quando le due forze antagoniste, da destra e da sinistra, al sistema cristiano-sociale hanno raccolto rispettivamente il 18 e l’11%. Passi in avanti straordinari che fanno il paio con il collasso delle famiglie popolari e socialiste di una delle aree più ricche e propulsive della Germania a trazione grosse koalition. Ci sono voti che contano e voti che pesano. Ma anche che si raccontano, sia prima sia dopo l’apertura delle urne. Quello bavarese è soltanto l’ultimo esempio in ordine di tempo di come lo strumento elettorale sia sempre più accompagnato dallo sventolio di spauracchi e allarmi chiamati a orientare o sterilizzare culturalmente gli umori del popolo sovrano.
La reductio ad hitlerum dell’Afd portata avanti dalla stampa mainstream e dall’establishment, non può non suscitare un’obiezione legittima. Perché la scoperta che la leader Alice Weidel sia sposata con una donna – addirittura – cingalese, fa saltare uno schema precostituito. Se si aggiunge poi che la formazione populista è dichiaratamente amica dello Stato d’Israele, ecco che l’ingresso nel parlamento bavarese dei rappresentanti della formazione sovranista merita almeno di essere reimpostata con categorie nuove e riancorate al dato reale. Stessa cosa dovrebbe valere a sinistra per l’avanzata dei Verdi. La spigolatura di Pietrangelo Buttafuoco che richiama gli analisti italiani a non confondere i Pecoraro Scanio de’ noantri con chi invece ha nello zainetto i libri dell’etologo Konrad Lorenz, apre una prateria di considerazioni inattese.
La polemica tra Repubblica ed Espresso versus Luigi Di Maio di fatto non sta appassionando gli italiani, né tantomeno innescando girotondi o ventate di disobbedienza civile. E un motivo ci sarà. Lo strumento dello spauracchio è stato utilizzato fin troppe volte di recente e con risultati poco lusinghieri. Non ha funzionato con il Regno Unito, né prima né dopo Brexit. Le annunciate sette piaghe d’Egitto non hanno portato ad alcun deprezzamento della forza economica e morale del reame di Elisabetta II, né trascinato il resto del continente nell’abisso. Semmai, è stata la derisione del corpo elettorale pro leave a soffiare sul bisticcio globale tra sentire comune e opinion leader.
Esemplificativo il caso Usa, dove non bastano la demonizzazione di Trump, gli errori dei rilevatori demoscopici in vista del voto presidenziale, a riscrivere le pulsioni del tempo attuale, anzi. L’occupazione in crescita e la mancata esplosione della terza guerra mondiale sul fronte nord coreano e neanche su quello siriano, a questo punto, sono un motivo d’imbarazzo per chi è chiamato a interpretare i fatti. E se il tycoon alla Casa Bianca è bersaglio generalizzato, impossibile pensare che il principale spin doctor, Steve Bannon, non sia dipinto alle stregua di una eminenza grigia del sovranismo internazionale. Mario Sechi nel frattempo dal salotto di Agorà chiama l’alt generale, ricordando che è una sproporzione stimare alle stregua di un “grezzo e ignorante cowboy” il titolare di un Mba con lode alla Harward business school.
Ma se il caso Usa è sovraesposto, le recenti tornate in Olanda e Svezia sono state teatro del medesimo schema. Il 13,1% di Geert Wilders con il Partito delle libertà e il 17,6% di Jimmie Akesson e dei Democratici Svedesi, sono stati preceduti da spavento e poi dalla miope esultanza di chi alla fine ha gridato «l’Europa è salva». La doppia cifra raggiunta in paesi notoriamente liberal dovrebbe essere invece un dato da maneggiare con cura, spia della sofferenze di sistema attuale e della capacità della politica di base di produrre nuovi linguaggi. Fuori dal vecchio continente, la strada che porterà al ballottaggio brasiliano tra il populista di destra Jair Bolsonaro (46,1% al primo turno) e Fernando Haddad (29%) del Partito dei Lavoratori, è lastricata d’isteria.
I risultati sono però quelli che contano. Sia in termini percentuali sia alla prova dei fatti. Se è vero infatti che alle scorse presidenziali francesi Marine Le Pen è stata sconfitta da Emanuel Macron rimanendo molto al di sotto della soglia psicologica del 40%, è vero pure che attorno a lei sono stati issati oltre ogni soglia lecita gli scudi della dis-onestà intellettuale. La chiusura dei confini francesi e i migranti scaricati letteralmente sul territorio italiano dalla polizia d’Oltralpe, ci dicono dell’ipocrisia del modello En Marche e della doppia morale europeista dell’inquilino dell’Eliseo. Le rilevazioni sul gradimento, intanto, segnalano il solco attuale tra Macron e il popolo francese.
Errori di valutazione, sviste e non solo. Più il sovranismo viene demonizzato e sottodimensionato e più la reazione popolare va in direzione totalmente opposta rispetto agli orientamenti autoreferenziali della cabina di regia continentale. Magari, e ce ne siamo già scordati, è stato il tono sprezzante di Matteo Renzi durante la scorsa campagna elettorale soprattutto in direzione dei Cinque stelle, a produrre gli effetti contrari. E dire che il referendum costituzionale aveva già dato delle chiare indicazioni sui disagi del popolo italiano. Una lezione che evidentemente pare ancora non essere stata digerita. Almeno in alto.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta