Luigi Tenco e Sanremo 50 anni dopo
Erano gli anni ’60 e ridendo e scherzando, forse, ci si era lanciati in una corsa ad uno sviluppo che non era stato appropriatamente accompagnato da una crescita. Si produceva, si consumava e ci si consumava pensando che l’esistenza dovesse essere improntata al fare di più per avere di più; nell’illusione che la corsa sfrenata al materialismo potesse dare alla vita un senso di felicità. E in superficie il gioco ha funzionato, ma nel profondo dell’animo umano? In quegli anni l’intellighenzia italiana si poneva tale domanda e azzardava delle risposte: Federico Fellini nei cinema con ‘La dolce vita’ ed ‘Otto e 1/2’ lanciò sassi sulle coscienze di tutti; Lucio Fontana nelle gallerie d’Arte espose le sue tele monocromatiche squarciate per disincantare i visitatori ed invitarli ad andare oltre la materia che abbiamo dinanzi; Alberto Moravia con ‘La noia’ e ‘L’attenzione’ inondò di esistenzialismo le librerie… ed un giovane proveniente dalla provincia di nome Luigi Tenco andò in città e si mise a cantare ciò che aveva da dire.
Correva l’anno 1967 e Tenco, sulla scia di un precoce successo, varca le soglie del teatro Ariston. Tenco è malinconico nonostante il rapido successo, la raggiunta sicurezza economica e una tenera e bellissima amante come la cantante francese Dalidà. Il suo brano, ‘Ciao amore, ciao’, racconta di una persona che un po’ gli somiglia: uno che un bel giorno lascia le strade polverose di provincia con tutte le negatività che le attribuisce, saluta la brava fidanzata di sempre con un ‘ciao amore, ciao’ e va in città a godere dello sviluppo, ad inseguire il successo, a prendersi la propria fetta di dolce vita. Corre, valica la città notte e giorno, salvo poi capire che si tratta di un godimento talmente fine a se stesso da mettergli voglia di tornare a casa, al cortile da dove era partito e ritrovare la quiete, il disprezzato quanto rivalutato lavoro tra la polvere e la mano della ragazza che aveva liquidato con tanta arroganza.
Una canzone impegnativa, che aveva il potere di scuotere le coscienze e forse disturbandole, una canzone dal potere di scuotere, anche solo per un minuto, il più spregiudicato dei palazzinari in procinto di mettere in atto l’ennesimo semi abuso edilizio… una canzone che era troppo per un pubblico che non aveva voglia di riflettere e per una commissione che doveva pensare allo share e dunque alla voglia di non riflettere del pubblico. Una canzone che un festival musicale come Sanremo, in cui la corona in testa la portava Orietta Berti, non meritava. Una canzone che fu disprezzata, perché inadeguata al clima di frivolezze che il festival voleva infondere e da cui il pubblico voleva essere infuso. E l’epilogo fu tragico: appresa la notizia notizia mentre riposava sul tavolo di un biliardo, il ventinovenne Luigi salì nella suite del suo albergo e si sparò un colpo in testa lasciando un biglietto con scritto così: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.”
A che senso oggi ricordare la figura di Luigi Tenco in occasione dei 50 anni dalla sua morte? E che senso ha avuto, quest’anno, aprire il Festival di Sanremo con un omaggio a lui dedicato? Forse l’invito di Tenco, contenuto nel suo biglietto d’addio, a schiarirci le idee è il modo migliore per omaggiare il messaggio contenuto nelle sue splendide canzoni sulle quali, a distanza di anni, non sembra essersi depositato neanche un granello di polvere. Occorrerebbe riflettere su cosa siamo, su dove stiamo andando, sulla società che attraverso le nostre azioni dirette e indirette abbiamo costruito e che guardandoci intorno appare sempre più fallimentare… anzi distrutta. Volevamo addentare la nostra fetta di dolce vita, l’abbiamo goduta per un po’ e abbiamo seminato pane secco; abbiamo corso verso un successo senza limiti ed abbiamo arricchito gli psicoanalisti, le case farmaceutiche ed obbligato le palestre ad inserire corsi di Yoga tra le loro attività. E se da italiani vogliamo realmente rifondarla una società sana, intrisa di quei valori che la possano rendere accogliente per noi e per i nostri figli; una società che fabbrichi più umanisti e meno cannibali; una società responsabile e non colpevolmente incosciente; una società che faccia emergere i migliori e non i fenomeni di polistirolo; una società matura e non emotivamente arrestata in una sorta di blocco adolescenziale; se da italiani vogliamo realmente una società che sappia virtuosamente ricomporsi, per far rinascere un Paese adeguato a ciò che sia i primi sia gli ultimi possono esprimere, occorre ripartire da profonde riflessioni… magari aiutandoci, in queste riflessioni, con la magistrale eredità culturale che l’intellighenzia italiana ci ha lasciato in dono. Magari già oggi potremmo iniziare con l’ascolto di qualche canzone di Luigi Tenco.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta