Charlottesville, memoria storica e mulini a vento
«Non ho voglia di esultare di fronte alla caduta di un nemico che ha combattuto così a lungo e così valorosamente e che ha sofferto così tanto per una causa: anche se quella causa fu, io credo, una delle peggiori per le quali un popolo abbia mai combattuto […] Non dubito della sincerità delle grandi masse che si opposero a noi». Così scrive nelle sue memorie il generale Ulysses S. Grant, capo dell’esercito federale del Nord che sconfisse, nella guerra civile americana, le forze della Confederazione del Sud comandate da Robert E. Lee. I due si incontrano il 9 aprile del 1865 ad Appomattox, in Virginia, per trattare la resa delle truppe sudiste: un ultimo atto privo, tuttavia, di risentimento e di odio. Quel giorno, Grant e Lee riservano l’uno per l’altro il rispetto che si deve fra chi, solo qualche anno prima, ha combattuto fianco a fianco nella guerra contro il Messico; e giungono piuttosto rapidamente ad un accordo per una resa dignitosa dei Confederati. Grant, tre anni dopo, sarà eletto Presidente degli Stati Uniti, per poi vedersi rinnovato il mandato nel 1872. Lee, che invece muore nel 1870 poco dopo la fine della guerra, diviene il simbolo di quel “profondo Sud” che, sebbene sconfitto, rivendica con orgoglio il proprio posto nella storia americana, e a lui dedica targhe, statue, musei, libri e film. Gli Stati del Nord non si oppongono a questi omaggi della cultura popolare: vincitori e sconfitti, come spesso accade dopo una guerra civile, elaborano liberamente una propria narrazione degli eventi, talvolta forse troppo fantasiosa, ma utile per provare a pacificare gli animi.
Più di un secolo e mezzo dopo, sono proprio le statue dedicate al generale sudista a divenire improvvisamente intollerabili alla vista, tanto da doverne decidere l’abbattimento. Una recrudescenza ideologica dei retaggi di una guerra civile ormai lontanissima ha provocato violenti scontri e la morte, a Charlottesville, in Virginia, di una ragazza e il ferimento di decine di persone: nel corso degli scontri tra antifascisti e militanti di estrema destra, uno di questi ultimi, James Fields, si è lanciato sulla folla con l’intento di compiere una strage. E ci è quasi riuscito. Media e opinione pubblica hanno subito indicato in Donald Trump il “mandante morale” delle violenze provocate dalla cosiddetta Alt Right: ma la verità è che ciò che andato in scena è stata una guerriglia fra estremisti, fra persone prive di senno. Chi è ancora dotato di un briciolo di razionalità, infatti, non ha alcuna difficoltà nel condannare senza ambiguità ed esitazioni l’ideologia dei neonazisti e dei suprematisti bianchi sfociata, nel caso di Charlottesville, in un atto palesemente terrorista; e non ha altrettanta difficoltà a ritenere pericolosa e figlia dell’infantile isteria post-moderna l’abbattimento di questi monumenti in virtù di un revisionismo progressista che pretende di riscrivere la storia sulla base dei propri attuali desiderata. Quello di Charlottesville non è stato, infatti, l’unico episodio: a Durham, in North Carolina, un gruppo di studenti ha sentito la responsabilità civica e il dovere morale di abbattere la statua dedicata a Thomas Jackson, uno dei comandanti confederati, e di accanirsi su di essa con calci, sputi e insulti, ricordando da vicino le immagini di una Baghdad in festa dopo la caduta di Saddam. William Bell, invece, sindaco di Birmingham nell’Alabama, visto che le leggi locali impediscono di abbattere statue storiche, ha avuto la brillante idea di avvolgere nella plastica un monumento confederato.
Quest’iconoclastia “purificatrice” che sconfina nel ridicolo è un dannoso tentativo di cancellazione della memoria storica che, lungi dall’essere un esempio di superiorità antropologica, è una perniciosa battaglia contro i mulini a vento, che si nasconde dietro la bandiera dell’anti-razzismo per trovare una giustificazione intellettuale. Non è chiaro cosa vi sia di “razzista” nel monumento dedicato ai veterani confederati che le autorità di Los Angeles hanno fatto rimuovere dal cimitero, o in quello dedicato alle donne confederate che ha subito la stessa sorte a Baltimora. Non è mediante la rimozione del passato che ne scompare la memoria: invero, l’effetto che si ottiene è esattamente il contrario, e risulta in un rafforzamento dell’odio e in un’esacerbazione della conflittualità. La recrudescenza della tensione sociale e razziale – che, è opportuno ricordare, ha attraversato gli Stati Uniti già durante i due mandati di Barack Obama – non si risolverà, come per magia, con la “sparizione” dei simboli confederati. Ma probabilmente non è questo che sta veramente a cuore; non è la concordia sociale che importa ai novelli depositari della verità storica. Ciò che importa è alimentare costantemente quel clima di “emergenza democratica”, instaurato un secondo dopo l’elezione di Donald Trump, e raggiungere il tanto agognato obiettivo: un impeachment, anch’esso “purificatore”, per riscrivere la Storia come più piace.
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta