Orientare la bussola dei mercati finanziari scommettendo su noi stessi
Trent’anni fa la metà del debito pubblico dell’Italia era nelle mani dei risparmiatori italiani. La borghesia media investiva parte dei propri risparmi nei titoli di Stato del proprio Paese, finanziandone dunque il presente e il futuro. La maggior parte della esposizione finanziaria dello Stato era quindi verso i propri cittadini nei cui riguardi venivano reinvestiti i capitali acquisiti appunto tramite l’emissione di titoli di debito. La Banca d’Italia ci informa che invece oggi i risparmiatori italiani rappresentano soltanto un esiguo 6 per cento; e l’esposizione più alta, con una quota del 32 per cento è verso istituti stranieri!
Quegli stessi investitori stranieri che ora, con la progressiva fine del Quantitative Easing, non solo vanno convinti a mantenere i titoli nostrani che hanno in pancia, ma vanno invogliati a sottoscriverne altri dal momento che non ci sarà più “mamma” Bce ad effettuare acquisti massicci. Non si può dunque prescindere dall’immagine dall’immagine che diamo di “noi” all’estero… ma non dobbiamo vivere ciò come un complesso di subalternità o come una mancanza di autonomia, anzi: ciò deve essere una sollecitazione ad essere migliori innanzitutto per “noi” stessi e di riflesso per gli altri che scommettono investendoci. E magari, per evitare di essere giudicati troppo dai mercati finanziari esteri, sarebbe opportuno che come cittadini tornassimo a scommettere su noi stessi come trent’anni fa.
Al momento la domanda che i principali 72 investitori internazionali si stanno ponendo, nel valutare i Paesi dell’Euro zona post Quantitative Easing sui quali puntare maggiormente o meno, è relativa alle prospettive di sviluppo economico che gli Stati presentano o meno. La risposta che circola riguardo alle ipotesi di crescita del Bel Paese, relativamente al Governo attualmente in carica, non sembra convincere gli esperti e di conseguenza i compratori che a questo punto pretendono un rendimento superiore in considerazione di un rischio che diventa superiore. E infatti se lo spread a marzo era a soglia 140 punti, oggi sembra voler assestarsi tra 250 e 300 punti. E questo rialzo significa maggior costo del debito. Uno shock di 100 punti su tutta la curva dei rendimenti (a partire da gennaio 2018 e per tutto il periodo di previsione del Def, fino al 2020), secondo una stima dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, si traduce, alla voce spesa per interessi, in cifre pari a 1,8 miliardi nel primo anno, 4,5 miliardi nel secondo, 6,6 nel 2020.
Il vero grande problema che ha dinnanzi l’Italia non è dunque l’Unione Europea e i suoi vincoli: il problema è come conciliare l’inconciliabile! Perché se le proposte di Governo da una parte, con il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni, si traducono in maggiori uscite e dall’altra parte, con la flat tax, in minori entrate, la logica di rilancio dell’economia si esprime con una politica attiva che si attua con il deficit pubblico. E il deficit pubblico si finanzia con la leva del debito, dunque con l’emissione di titoli che vanno collocati nelle tanto vituperate strade dei mercati finanziari che si orientano con la propria bussola e scelgono dove, come e quando investire… e spetta al Governo offrire una prospettiva Paese che sia prospera per il proprio interno, per i propri cittadini e di riflesso sicura per i mercati così da non dovere ricorrere ad aumenti di tassi di rendimento economicamente insostenibili e moralmente svilenti.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta