Partecipazione, se non ora quando
E’ indubbio che la globalizzazione dei mercati ha sempre più bisogno, a qualsiasi latitudine e longitudine si operi, di coinvolgere e rendere corresponsabili della vita e del destino delle imprese, le cosiddette risorse umane. Negli ultimi anni, prima la rincorsa al profitto per il profitto, poi la crisi finanziaria ed economica, hanno causato tra gli altri drammi un alto tasso di disoccupazione.
Risulta evidente inoltre che la crisi del cosiddetto capitalismo finanziario si potrà superare, incentivando e promuovendo nuove forme partecipative e con la diffusione in particolare dell’azionario tra i dipendenti delle singole aziende.
Oggi il tema è tornato al centro del dibattito culturale e politico perché il sempre più diffuso obiettivo aziendale della ottimizzazione dell’impiego delle risorse umane, richiede necessariamente una crescente partecipazione dei lavoratori dipendenti alla gestione e ai risultati dell’impresa ed anche a seguito delle notizie riguardanti la posizione del nostro Paese nelle graduatorie dei redditi dei lavoratori dipendenti. Tutti, infatti, sono d’accordo che la risorsa umana è il bene più importante per l’impresa ed è l’uomo che deve essere al centro della nuova economia. La partecipazione, perciò, mai come ora può diventare fattore di rafforzamento della competitività e soprattutto di benessere per i lavoratori.
Una seria politica dell’occupazione perciò deve tener conto non solo dell’aspetto quantitativo del problema, ma anche del valore etico e sociale del lavoro dell’uomo che diventa più uomo, proprio attraverso il lavoro.
L’uomo quindi, come ha scritto, Benedetto XVI nella sua enciclica “Caritas in veritate”, deve essere sempre più soggetto del lavoro e dell’economia per diventare l’autentico artefice del proprio destino, perché come afferma anche Papa Francesco nella sua “Evangelii Gaudium”: “il lavoro è quella attività in cui il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni, che sono destinati all’uso comune”.
Si ripropone, quindi – e non può essere altrimenti – l’antica, e mai affrontata seriamente, questione dell’interpretazione e dell’applicazione degli articoli 46 (“Ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro ed in armonia con le esigenze della produzione… la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge… alla gestione delle aziende”) e 47 (“la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio… e favorisce l’accesso del risparmio popolare… al diretto ed indiretto investimento azionario” ecc. ecc.) della nostra Costituzione. Ma anche sia nel secondo comma dell’articolo 3 che nel terzo comma dell’articolo 41, è rispettivamente previsto: «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; e «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
La portata dell’articolo 46, oltretutto nella sua formulazione originaria parlava esplicitamente non di «collaborazione» ma di «partecipazione» vera e propria dei lavoratori nelle proprie imprese di lavoro.
E questo anche e soprattutto per la realizzazione di una compiuta democrazia economica. La legittimazione democratica infatti scaturisce dalla condivisione delle responsabilità, che eleva il ruolo delle parti sociali dalla storica contrapposizione della lotta di classe ad un’alleanza per la crescita del «Sistema Paese».
Appare evidente che in un moderno modello di sviluppo europeo debba prevalere la tendenza a dare ascolto ai rappresentanti dei lavoratori i quali, avendo la lunga durata del posto di lavoro tra i primi obiettivi, contribuiscono ad allargare la visione pluriennale delle strategie di impresa, rispetto a modelli di totale deregulation che, orientati all’ottenimento di risultati economici immediati, perdono di vista gli obiettivi strategici di medio e lungo periodo.
La tradizione sociale italiana del resto ha sempre sostenuto il principio della partecipazione.
Filippo Carli, illustre economista, segretario generale della camera di commercio di Brescia, agli inizi del secolo scorso, aveva proposto la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese; tale programma era stato poi nel 1919 recepito dal futurista Filippo Tommaso Marinetti nel suo “Democrazia futurista” e sostenuto da un industriale importante come il barone Alessandro Rossi di Schio.
Così come lo aveva fatto nel 1921 il liberale Giovanni Giolitti, come presidente del Consiglio dei Ministri, che presentò un disegno di legge sul controllo delle industrie da parte dei lavoratori, anche allora richiamandosi a precedenti europei tra cui quello tedesco della legge 4 febbraio 1920 sul consiglio di azienda, la quale trovava il suo fondamento nell’articolo 165 della Costituzione di Weimar.
Tutta la dottrina sociale della Chiesa poi, dalla enciclica “Rerum Novarum” (1891) di Leone XIII («Allo scioglimento della questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi, con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisogni e ad avvicinare ed unire le due classi tra loro».), alla “Quadragesimo Anno” (1931) di Pio XI («Stimiamo sia cosa più prudente che, fin dove è possibile il contratto del lavoro venga temperato alquanto col contratto di società, come si è cominciato a fare, in diverse maniere, con non poco vantaggio degli operai stessi e dei padroni. Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nella amministrazione, o compartecipi in certa misura, agli utili ricavati».), dalla “Mater ed Magistra” (1961) di Giovanni XXIII («Riteniamo che sia legittima nei lavoratori l’aspirazione a partecipare attivamente alla vita delle imprese, nelle quali sono inseriti e operano».), alla “Laborem Exercens” (1981) di Giovanni Paolo II («Le numerose proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche del supremo Magistero della Chiesa. Queste sono le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili». Dalla Centesimus Annus sempre di San Giovanni Paolo II, del 1ª maggio 1991 («Si può giustamente parlare di lotta contro una sistema economico inteso come metodo che assicura l’assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e delle terra, rispetto alla libera soggettività del lavoro dell’uomo. A questa lotta contro un tale sistema non si pone, come modello alternativo, il sistema socialista, che di fatto risulta essere un capitalismo di Stato, ma una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione. Essa non si oppone al mercato, ma chiede che sia opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società».), alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI, che contiene indicazioni precise per adottare forme di partecipazione del lavoratore e quindi elevare l’uomo a soggetto del lavoro. Infine quella parolina magica, “partecipazione”, la pronuncia anche Papa Bergoglio nella sua lettera (22 maggio 2014) a Guy Ryder – Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: … “Il lavoro umano è parte della creazione e continua il lavoro creativo di Dio. Questa verità ci porta a considerare il lavoro sia un dono che un dovere. Il lavoro perciò non è meramente una merce, ma possiede la sua propria dignità e valore. (…) Impegnandoci per accrescere le opportunità di lavoro, affermiamo la convinzione che solo “nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita”,(Evangelicum gaudium, p.192) testo che richiama, la prima esortazione apostolica di papa Francesco, promulgata il 24 novembre 2013, ricorrenza della solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo.
Né si può dimenticare la politica sociale che caratterizzò la Repubblica Sociale Italiana, che con il decreto legislativo nr. 375 del 12 gennaio 1944, in piena guerra civile, prevedeva l’inserimento di rappresentati dei lavoratori nei consigli di gestione delle imprese. Era la cosiddetta “socializzazione delle imprese”, che doveva poi essere, nel corso del dopoguerra, uno dei capisaldi della cultura della corrente di destra sociale e popolare all’interno del M.S.I.
Successivamente la tematica riemerse come un fiume carico ogniqualvolta il clima di lotta di classe, che imperava nel nostro Paese, si andava alleggerendo. Ricorderò solamente che, tra gli altri, l’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio nelle considerazioni finali della sua relazione all’Assemblea della Banca d’Italia del 30 maggio 1998 sostenne «la necessità di sistemi di remunerazione che, agevolando l’adeguamento del costo del lavoro alle condizioni delle economie, alle fasi produttive e alla situazione dell’azienda, possano creare le premesse per un legame sempre più stretto tra interessi del lavoro ed interessi dell’impresa, favorire la competitività e l’occupazione».
Anche Mario Draghi, nel 2011, quando era ancora governatore di Bankitalia e presidente della Bce in pectore, parlava di necessità di rimuovere gli ostacoli all’attività economica abbattendo i costi di apertura e di gestione delle nuove imprese accresce la partecipazione economica delle nuove generazioni”, concetti ribaditi anche nel 2015, da numero 1 della Bce, quando invitava a “incentivare una partecipazione maggiore del lavoro ed elevando la produttività”.
Nello stesso periodo il governo Berlusconi varò un codice della partecipazione che si muoveva nella direzione di incentivare la partecipazione agli utili dei lavoratori come strumento utile per affrontare la crisi economica e finanziaria e per vincere la sfida della globalizzazione.
Anche il punto 8 della Carta sociale europea sancisce «il diritto dei lavoratori all’informazione, alla consultazione ed alla partecipazione».
Gli organismi della Comunità europea si sono evidentemente preoccupati, proprio come i nostri costituenti, di suggerire un modello non solo pienamente compatibile «con le esigenze della produzione», ma addirittura strumento di coesione sociale e di sviluppo.
Va ricordata infine la raccomandazione del Consiglio europeo del 27 luglio 1992 che invita gli Stati membri a:
a) introdurre nelle imprese la partecipazione agli utili o l’azionariato dei lavoratori, oppure una combinazione delle due formule;
b) prendere in esame la possibilità di accordare incentivi di ordine fiscale o finanziario per incoraggiare l’introduzione di meccanismi di partecipazione;
c) incoraggiare l’uso di formule di partecipazione, agevolando la messa a disposizione di informazioni adeguate.
Oggi il principio partecipativo si pone come parte integrante e fondamentale di quel «Modello renano» che la dottrina considera elemento distintivo del capitalismo sociale europeo in contrapposizione a quello finanziarizzato di tipo statunitense ed anglosassone. Questo sul piano culturale e dei principi.
Naturalmente però il discorso diventa più arduo quando poi ci si incammina sul terreno accidentato della realizzazione pratica e delle proposte operative.
I dipendenti soci dovranno essere considerati come tutti gli altri azionisti? Nei consigli di amministrazione i lavoratori dovranno essere rappresentati in proporzione alle quote societarie possedute? Gli assetti societari di aziende partecipate dovranno essere stabiliti per legge? Il peso delle azioni potranno variare a seconda di chi le possiede? E quale dovrà essere il nuovo ruolo del sindacato: di controllo della convenienza dell’investimento o solo di trait-d’union tra maestranze e proprietà? E ancora bisognerà fare riferimento ai Consigli di sorveglianza del diritto societario tedesco? E, soprattutto, la partecipazione dovrà essere introdotta e disciplinata dalla legge o dovrà essere lasciata all’autonomia delle parti sociali. E così via.
Colgo solamente alcune delle questioni che bisognerà prima o poi affrontare, che, però, hanno trovato all’estero già soluzioni più o meno adeguate che potrebbero essere da noi, quanto meno, prese in considerazione e, naturalmente, adottate alla nostra situazione, alla nostra cultura, alla nostra tradizione e, soprattutto, alle nostre possibilità e potenzialità. Risulta infatti in maniera inconfutabile che, ovunque, i dipendenti-azionisti hanno costituito per le rispettive aziende un grande fattore di sviluppo, di rafforzamento patrimoniale e finanziario e di affermazione sul mercato e, quel che è più importante per noi in questo momento, un grande strumento di crescita occupazionale.
Un recente rapporto dell’Annual Economic Survey of Employee Share Ownership in European Countries ha reso noto che il 2017 è stato un anno record per l’espansione, in Europa, dei meccamismi di partecipazione azionaria dei dipendenti. Tranne che in Italia… Nelle grandi imprese europee l’86,6% propone ai propri dipendenti piani di azionariato, a corollario di una crescita inesorabile iniziata dal 2006: oggi sono 7,5 milioni i che partecipano agli utili delle grandi imprese e un altro milione quelli che partecipano al capitale in piccole e medie imprese.
Per favorire questo meccanismo, in Italia, si potrebbe far riferimento alle procedure ed ai meccanismi utilizzati in Francia, per incentivare la partecipazione delle maestranze, anche attraverso incentivi fiscali, al capitale sociale delle aziende privatizzate.
Vi è poi a disposizione anche tutta l’esperienza anglosassone, inglese e statunitense, che ci precede almeno di un decennio con il modello “Esop” (Employee stock ownership plan), mediante il quale l’azienda offre azioni gratuite, che rappresentano una specie di retribuzione aggiuntiva, costituendo un fondo chiuso fiduciario alimentato prevalentemente da risorse finanziarie aziendali, o con l’altro modello “Stockoptions”, che viene utilizzato come strumento di incentivazione per dirigenti e funzionari con la distribuzione di azioni a pagamento con particolari agevolazioni a fronte del raggiungimento di significativi e brillanti obiettivi di lavoro e di prestazioni.
A questi esempi vanno aggiunti i piani 401 (K) che prendono il nome dall’omonima sezione dell’International Revue Service che prevede particolari agevolazioni fiscali per forme di risparmio volontario che viene investito nelle azioni della propria società datrice di lavoro. Non vanno trascurati in quest’area economica, infine, strumenti finanziari che consentano, tramite sofisticate operazioni bancarie come il “management LED buyout” o il “family buyout”, al management aziendale, nel primo caso, ed a gruppi familiari, nel secondo, di acquisire mediante l’acquisizione della maggioranza azionaria, il controllo della propria società.
Il panorama, come si vede, è vastissimo e non c’è nulla o molto da inventare. Basterebbe solamente iniziare questo processo.
Ma vi sarà la volontà politica del prossimo Governo ad iniziare questo processo?
Occorrono però delle condizioni, direi così, ambientali che attualmente in Italia mancano o, nella migliore delle ipotesi, risultano insufficienti: prima fra tutte un mercato di capitali moderno, vivace, adeguato al posizionamento che occupa l’Italia tra i paesi industrializzati e sviluppati.
E poi un sistema bancario più efficiente e privatizzato, coinvolgendo le decine di migliaia di dipendenti che in tal modo potrebbero essere maggiormente motivati e corresponsabilizzati per una vasta azione di sostegno all’economia nazionale. Ed, infine, solamente per fermarci alle variabili più importanti, una Borsa maggiormente aperta alle nuove aziende che non dovranno più essere costrette ad emigrare, per essere quotate, a Wall Street.
Ma forse, mai come ora, alcune di queste condizioni ci sono sullo scenario italiano:
a) la volontà politica dei vari governi ad iniziare questo processo che non c’era mai stata nel passato e la disponibilità di una parte della sinistra (Damiano, Iachino e altri) a superare la vecchia lotta di classe ed assecondare logiche partecipative;
b) un atteggiamento collaborativo, quale mai si era registrato, della maggior parte delle centrali sindacali: Cisl, UIL ed UGL;
c) la disponibilità delle associazioni datoriali, Confindustria in testa, che ha fatto aperture significative per l’introduzione della partecipazione agli utili.
La strada resta per la verità ancora tutta in salita, ma il traguardo ora incomincia ad intravedersi.
*tratto dal libro: “Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica.”