Per un nuovo New Deal
Il New Deal italiano, la diplomazia del Made in Italy e la gestione dell’ecosistema SIMEST-ICE. Sono queste le sfide più delicate che spettano il ministro Adolfo Urso.
Le priorità e le urgenze del Governo Meloni sono state chiare sin dall’inizio. E direi scontate. Le misure contro il caro energia, il conflitto in Ucraina, il contenimento dell’inflazione. Tutte questioni a breve termine, mentre Fratelli d’Italia e gli alleati della coalizione auspicano, forti del mandato popolare ricevuto, di poter governare per i cinque anni della legislatura.
È un obiettivo ambizioso, stante i canoni di scarsa longevità dei governi italiani. Di conseguenza, le vere sfide saranno altre, ben più difficili da realizzare ma non impossibili, considerando la formidabile capacità di Giorgia Meloni a negoziare, a fare squadra e ad agire con incisività e concretezza. Tutte cose di cui ha dato prova durante la formazione dell’Esecutivo.
La sfida più importante, ovviamente, sarà quella di far ripartire l’Italia; una frase sentita e risentita dai governi precedenti, usata davanti alle telecamere in ogni occasione mentre in concreto si faceva ben altro. Si sono sprecate ingenti e preziose risorse pubbliche nel miope assistenzialismo chiamato reddito di cittadinanza, nella gestione (disastrosa) dei flussi dell’immigrazione clandestina e in quella della pandemia. Per quanto di poco conto, basti ricordare la spesa dei banchi a rotelle.
Comunque, è indubbio che la vera ripartenza di un paese comincia dall’imprenditoria. Da quel tessuto produttivo che genera ricchezza, crea posti di lavoro, mantiene – attraverso l’imposizione fiscale – l’apparato statale, assicurando il benessere della collettività. Un concetto che sembrava poco chiaro sia alla sinistra, ancorata tutt’oggi all’ideologia arcaica della contrapposizione fra imprenditori e lavoratori, che ai pentastellati per i quali la priorità è l’assistenzialismo (che ovviamente sentono proprio, considerata la provenienza del loro elettorato), incuranti che è possibile finanziarlo senza mandare in default il paese garantendo le risorse necessarie al sistema produttivo.
La storia è l’insegnante d’eccellenza, ma bisogna conoscerla, saperla interpretare per adeguarla alle esigenze del momento. Negli anni Trenta il New Deal di Roosevelt, con i massicci investimenti pubblici nell’economia abbinati ad un incentivazione senza precedenti dell’industria, ha fatto uscire in pochi anni gli Stati Uniti dalla peggiore crisi della loro storia. Nel dopoguerra, gli stati europei hanno puntato tutto sulla industrializzazione (e non sull’assistenzialismo) per creare quel benessere che ha caratterizzato il periodo dagli anni ‘60 agli anni ‘90. Persino la Cina, pur conservando il modello ideologico e politico comunista, ha rinunciato all’annesso disastroso modello basato sull’economia pianificata convertendosi ad un approccio apertamente capitalista.
All’Italia di oggi serve un New Deal 2.0. Un incisivo intervento a favore delle imprese, tarato ad hoc sulle esigenze del Made in Italy, che non solo farà uscire il paese dalla recessione, ma gli permetterà di riguadagnare la posizione in vetta ai paesi industrializzati persa negli ultimi decenni. Inoltre, il paese può contare su uno strumento eccezionale rappresentato dal PNRR, quelle ingenti risorse messe a disposizione dall’UE che sicuramente faciliteranno il compito della ripresa.
Aver rinominato il Ministero dello Sviluppo economico “Delle Imprese e del Made in Italy” è gia un riconoscimento, pur linguistico, dell’imparagonabile valore di quello che si può definire come il più grande Brand naturale esistente al mondo. I tedeschi hanno l’automotive, gli svizzeri gli orologi, ma nessuna nazione può vantare l’apprezzamento, la considerazione e l’amore che viene manifestato, in ogni parte del pianeta, verso il Made in Italy. Un “marchio di fabbrica” frutto di quell’incredibile mix di storia millenaria, cultura, arte, gusto ed ingegno che a partire dal dopoguerra ha reso il Belpaese un’eccellenza industriale. Una sigla distintiva che spicca praticamente in ogni singolo settore produttivo, dalla moda alle tecnologie, dalla ceramica al farmaceutico, dall’agroalimentare alla chimica e all’aerospaziale. È altresì un riconoscimento per quegli imprenditori, appassionati ed illuminati, come Dino Ferrari, Barilla, Ferrero e Armani, giusto per citarne alcuni, che hanno dato vita, attraverso il proprio lavoro, alla più eccezionale operazione di marketing della storia, appunto il Made in Italy: è un brand che da solo basterebbe a porre l’Italia in vetta alla classifica dei paesi industrializzati in termini anche di Pil e benessere, se non fosse per uno Stato burocratico ed ingolfato che si auspica che il Governo Meloni riuscirà a riformare, rendere efficiente ed umanizzare per imprese e cittadini. Il neo-ministro per le Imprese ed il Made in Italy ha definito gli imprenditori italiani degli eroi: eroi nel resistere alla voracità dello Stato nel tassare le imprese, soffocando di fatto ogni iniziativa privata ed aumentando nel contempo l’evasione. Basti ricordare che si tratta di un sistema fiscale talmente perverso che persino obbliga chi avvia un impresa a pagare alla fine del primo anno quasi il 90% di tasse considerando anche l’anticipo per l’anno successivo, sulla base di quel che si chiama presunzione di fatturato, azzerando di fatto i guadagni. Così, migliaia di imprenditori hanno trasferito sedi o attività in altre nazioni pur di sopravvivere.
Eroi nel resistere alla burocrazia intesa come quel fiume di leggi, norme, regolamenti attuativi, precisazioni ed interpretazioni, spesso senza alcun filo logico o senso di continuità, che toccano ogni settore produttivo. Con costi mostruosi in termini di perdita di tempo, denaro, opportunità.
Eroi nel resistere agli attacchi economici e finanziari dall’estero, persino dall’UE, per via di una rappresentanza debole ed indecisa dell’interesse dell’Italia produttiva, presso le istituzioni europee.
Eroi nel resistere, infine, persino ad un’ideologia che ha contrapposto da sempre – per credo o per convenienza politica – il mondo dell’imprenditoria ai lavoratori, facendo finta di non capire che senza i primi non esisterebbero i secondi e non ci sarebbe nemmeno l’assistenzialismo tanto caro agli oppositori del centrodestra. Perché nel mondo di oggi, ben diverso dai tempi in cui è rimasta la sinistra, le imprese non creano solo posti di lavoro ma anche benessere e futuro per tutti.
Secondo la visione ottimistica che ogni tanto qualcuno tira fuori nei scherzosi dibattiti tra amici, è proprio per via di quello Stato burocratico, inefficiente ed insensibile, che in Italia c’è così tanta creatività.
Il compito che spetta al neo-Ministro delle Imprese e del Made in Italy sarà impegnativo. Per quanto possa essere chiaro che la ripresa non può che partire da un forte stimolo alle imprese, il New Deal italiano, è altrettanto chiaro che la spinta al sistema produttivo dipende dalla risoluzione di una serie di problematiche chiave attraverso una sinergia pressoché perfetta tra una molteplicità di ministeri sotto il coordinamento programmatico di Urso, che dovrebbe avere altresì la direzione programmatica e di indirizzo di SIMEST e delle altre “controllate”. Si dovrà procedere in modo veloce alla sburocratizzazione (di competenza del dicastero della Pubblica Amministrazione), alla riduzione del pressing fiscale (Economia e Finanze), alla realizzazione degli investimenti previsti nel PNRR (Affari europei). Su tali punti sicuramente il neo-ministro, nell’elaborare un modello interconnesso tra i vari ministeri per la riforma del Sistema-paese riguardo al mondo produttivo, potrà contare sulla Premier Meloni che già ha dimostrato non solo di essere capace a creare squadra ma, con alcune mosse minori (tra cui ingaggiare Cingolani come consulente) ha delineato la precisa volontà di lavorare per risollevare l’Italia scardinando la logica delle appartenenze nel nome delle competenze. Riguardo il Made in Italy, invece, servirà riportare sotto il diretto controllo del Ministero per le Imprese (ed, appunto, il Made in Italy) la SIMEST e l’ICE (quest’ultimo passato sotto il controllo della Farnesina), storici pilastri nella promozione del sistema produttivo italiano nel Mondo, realizzando anche una sinergia effettiva e funzionale tra queste da intenderle come unica entità con il medesimo obbiettivo: il New Deal italiano. Affinché i settori tradizionali dell’imprenditoria italiana siano semplicemente alleggeriti, come abbiamo già detto, da burocrazia e pressione fiscale, ci sono tre settori che rappresenteranno una sfida del tutto nuova e che aiuteranno il Paese ad accelerare significativamente i tempi di ripresa e crescita.
Il primo è indubbiamente la digitalizzazione della società, che dovrà toccare sia la cosiddetta alfabetizzazione digitale (che è tra le priorità dell’Agenda UE) che l’introduzione massiccia delle nuove tecnologie in ogni settore, pubblico o privato che sia. I costi della Pubblica Amministrazione verranno drasticamente diminuiti ottimizzando nel contempo le relazioni tra Stato ed imprese. Tutto ciò si tradurrebbe in miliardi di euro di risparmio anche solo in termini di produttività ed efficienza. Pensiamo alla certezza nella trasmissione dei dati, all’eliminazione della carta dagli uffici, alla rapidità delle comunicazioni,alla semplificazione dei processi e degli iter burocratici.
Il secondo è la promozione del Made in Italy all’Estero che rappresenta una boccata d’ossigeno per le imprese italiane.
Il terzo, premesso che il ministro Urso optasse per il New Deal italiano e la Meloni convincesse i mercati internazionali che ci sono tutti i presupposti per un esecutivo coeso ma soprattutto longevo, riguarda la messa in atto di politiche concrete per l’attrazione di investimenti esteri, delocalizzazione di tecnologie da paesi terzi verso l’Italia e la costruzione di un clima favorevole riguardo ricerca e sviluppo. Fino ad oggi ciò accadeva a scapito dell’Italia. Ora è il momento di invertire la tendenza.
In conclusione, possiamo dire che sarà il Made in Italy che salverà l’Italia, a condizione che ci sia uno Stato che rispetti, ami, aiuti e premi il proprio tessuto imprenditoriale. Uno Stato che possa finalmente essere percepito come amico da chi lavora e produce. Utopia? Spero davvero di no.