Prego in moschea e scrivo a Babbo Natale. Sumaya Abdel Qader Porto il velo, adoro i Queen
Ha scelto l’autoironia per raccontare la sua storia di giovane immigrata di seconda generazione, nata in Italia da genitori immigrati. Una vita molto simile a quella dei coetanei ma che non rinuncia ai propri valori e alle proprie tradizioni, nel rispetto delle regole del paese in cui vive.
Dopo il fumetto Persepolis sulla storia di un’adolescente musulmana emigrata in Europa, disegnato e scritto in francese dall’iraniana Marjane Satrapi, nel libro Porto il velo, adoro i Queen, Sumaya Abdel Qader cerca di assottigliare l’alone di diffidenza che circonda i figli degli immigrati e, sottolinea che «contrariamente a quanto si crede» sono «allegri, simpatici e spiritosi», lontani dallo stereotipo che li bolla come una generazione chiusa e fanatica, soltanto perché erede di una cultura diversa. «Fin da piccoli, noi musulmani di seconda generazione abbiamo vissuto tra due culture, non abbiamo un unico punto di vista sulle cose e, soprattutto, non crediamo che il nostro approccio alla vita sia l’unico giusto e possibile».
Magari non saranno tutti come racconta Sumaya, magari non tutti saranno d’accordo con lei, come si legge nei blog in cui si parla del suo libro, però la scrittrice è un riuscito esempio di integrazione, di quell’integrazione che, come sostiene il presidente della Camera Gianfranco Fini, è «una conquista per chi si integra e una ricchezza per chi integra», sulla via della «condivisione di valori e obiettivi comuni».
In questo contesto, sottolinea Valentina Cardinali, ricercatrice che collabora con la fondazione Farefuturo, la donna ha un ruolo importante «per individuare quale dialogo sia possibile e quali siano le condizioni e le prospettive di integrazione». La donna più di tutti è centrale nella trasmissione dell’identità, rappresenta un trait d’union tra il milieu di appartenenza e il nuovo contesto e può essere un agente di integrazione perché avverte la necessità di abbattere le barriere tra culture diverse.
E la storia di Sumaya conferma questa lettura. Nata a Perugia da genitori palestinesi, per prendere la seconda laurea in mediazione linguistica, dopo quella in biologia, si è trasferita a Milano dove vive con il marito di origine siriana e le due figlie di 4 e 2 anni. Rappresentante dei Giovani musulmani italiani di Milano, ha creato un giornale Yalla, Italia! (Vai Italia!) per dare voce ai molti islamici che non vivono in conflitto con l’Occidente, ma che anzi si sentono a casa nel paese in cui sono nati, anche se è diverso da quello dei loro genitori. Un’iniziativa, la sua, realizzata anche per chi all’interno di una famiglia non integrata con la cultura ospitante non ha la libertà di vivere come i propri coetanei e deve lottare per costruirsi una propria identità, come Hina la giovane pachistana di 20 anni sgozzata perché vestiva all’occidentale ed era fidanzata con un italiano.
Quello che si trova nelle pagine di Sumaya è il ritratto di una nuova Italia, la descrizione di un percorso che cerca di realizzare un compromesso, una mediazione tra le aspirazioni personali, le aspettative delle famiglie e i continui “esami” dell’ambiente circostante. Sulinda, la protagonista del libro, è una musulmana praticante che ogni mattina invece di mettersi il fard si sofferma sulla scelta del velo – che porta non per imposizione del potere maschile ma per seguire il suo credo – da abbinare alla borsa e al soprabito e, nonostante il nome esotico, l’hijab che le nasconde i capelli e due genitori arabi, sottolinea la propria italianità: «Mi guardo allo specchio, dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa. Tutto rigorosamente made in Italy». Made in Italy, ma ancora non italiana.
«Mi sento italianissima – confessa l’autrice –. In casa, con mio marito che è musulmano, parlo in italiano, ho studiato in italiano, sogno in italiano». Però in un gioco di specchi con la protagonista del suo libro, confessa la sua ansia di essere fermata dalla polizia, il timore di essere mandata via in trenta giorni dal paese dov’è nata, dove vive da trent’anni, che sente suo. Così, lei musulmana, scrive una lettera a Babbo Natale e nell’attesa di ricevere il regalo più ambito, la cittadinanza, compila i soliti moduli di rinnovo del permesso, il «permesso di stare a casa mia», e continua gli studi universitari perché il visto da studente le consente di essere in regola.
Ma non si piange addosso Sulinda, reagisce sempre in modo positivo anche davanti ai pregiudizi della gente, alle sue paure, alla sua diffidenza, insegnando alle figlie a capire le ragioni degli altri. Le iscrive alle scuole delle Orsoline perché non perdano di vista i valori di base comuni all’islam e al cristianesimo e allo stesso tempo pratica la propria fede musulmana, senza trovarsi in contrasto con la cultura italiana. Come non lo è la sua autrice che, anzi, appartiene a un centro islamico che collabora con la parrocchia e le istituzioni di quartiere.
«La vera sfida – si legge nel libro – è vivere un’identità complessa e ricca che verrà continuamente sottoposta a riassestamenti e modifiche. Il mio, il nostro, è un ruolo importante sulla strada della comprensione, in una società che è in divenire e che, a livello più macroscopico, è anch’essa alla ricerca di una nuova identità e di una nuova interdipendenza».
Rosalinda Cappello
Scheda libro:
Sumaya Abdel Qader
Porto il velo, adoro i Queen
Sonzogno, 2008, pp. 179
euro 14,00