PRESERVARE I NOSTRI VALORI DALL’ONDATA GIALLA
Di seguito pubblichiamo l’intervento del professore Corrado Ocone al meeting “Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” organizzato dalla Fondazione Farefuturo.
Giambattista Vico ci ha insegnato che “la natura delle cose è nel loro nascimento”, cioè nella loro origine. Molti dei punti problematici evidenziati nelle relazioni precedenti, in merito ai nostri rapporti, economici e non solo, con la Cina, forse potranno ricevere qualche delucidazione ulteriore, rispetto a quanto pure si è detto, risalendo alla loro radice culturale. Per farlo mi servo delle riflessioni, affidate a più libri, da colui che, nel mondo filosofico, è probabilmente il massimo esperto della cultura cinese: Francois Jullien.
Egli nelle sue opere ci ha ricordato come la Cina è la vera realtà esteriore all’Occidente, non potendosi dire altrettanto, ad esempio, né della cultura islamica né di quella indiana. La sua lingua, fra l’altro, non appartiene nemmeno al ceppo indo-europeo, e ciò non è da considerarsi un elemento secondario: i filosofi più degli altri sanno che il linguaggio non è un semplice strumento di comunicazione, ma è il luogo in cui, per così dire, si crea il mondo, in cui si forgiano le strutture mentali con cui noi ci mettiamo in rapporto con la realtà.
Non è un caso, ed è comunque un fatto, che la cultura cinese si sia sviluppata da sempre in modo autonomo, e con successo, e che sia risultata impermeabile all’influenza dell’uomo occidentale quando costui, all’inizio dell’età moderna, ha cominciato ad estendere la sua potenza sulle più sperdute contrade del mondo. Basti considerare il diverso modo in cui hanno reagito i cinesi e gli indigeni americani all’impatto con l’Occidente nel XV e XVI secolo. La Cina non si è cristianizzata. I viaggiatori che andavano in Cina trovavano un “mondo pieno”, mentre in America trovavano un mondo capace di essere svuotato dalla nostra cultura. Mentre noi abbiamo costruito dei miti, come quello del buon selvaggio e altri, che in qualche modo assimilavano gli indigeni americani al nostro essere stati “uomini primitivi”, in Cina tutto questo non è accaduto né poteva accadere essendosi la civiltà cinese sviluppata molti secoli prima della nostra.
La cultura cinese non può essere affrontata nell’ottica dell’esotismo perché essa è “altra” dalla nostra semplicemente perché ha sviluppato degli elementi che sono anche presenti nella nostra tradizione culturale ma che noi in qualche modo avevamo accantonato. I cinesi non hanno sviluppato la logica razionale, o meglio la loro razionalità è diversa dalla nostra: elemento che, andando sul pratico, ci farà capire il loro atteggiamento nei nostri confronti. Noi sin da Platone e Aristotele abbiamo concepito in qualche modo l’idea della razionalità intendendola come ricerca dell’ Eidos , l’Idea, e del Logos, il concetto.
Questo processo ha avuto un’impennata nel XV e XVI secolo, quando noi, con l’opera di Galileo, Newton e altri, abbiamo cominciato a costruire la nostra cultura attuale fondata sul razionalismo. Da allora ad oggi noi, portando all’estremo questo razionalismo, abbiamo messo in pratica gli strumenti che ci hanno portato a dominare il mondo. I cinesi hanno vissuto il nostro distanziamento nei loro confronti come qualcosa che li ha feriti nel loro più profondo. Fino a quel momento, la Cina non era affatto “inferiore a noi”, anzi in alcuni settori (ad esempio quello della navigazione), ci surclassava.
Quando i primi missionari raggiunsero Shangai, non solo dovettero adattare i loro costumi a quelli indigeni, al contrario di quello che avevano dovuto fare in America, ma trovarono una città per certi aspetti più progredita di molte città occidentali. Ma cerchiamo di capire cosa è da intendersi propriamente per razionalismo, ovvero cosa è il razionalismo moderno. Noi agiamo nella realtà creandoci dei “modelli” e cercando di “applicarli” ad essa.
Ovviamente la realtà fa attrito, recalcitra, e non sempre questa “applicazione” è perfetta o conseguenziale, ma comunque noi agiamo in questo modo ( è in questo contesto, detto fra partentesi, che nasce il mito dell’individuo, che nella storia cinese non esiste). Quindi noi ragioniamo secondo la logica mezzo – fine: abbiamo un fine, un obiettivo, il telos e cerchiamo di trovare i mezzi migliori, più “economici”, per raggiungerlo. È la logica della “realizzazione” la nostra.
Quella cinese, presente fra l’altro in alcuni momenti della storia occidentale, è invece una logica della “propensione”. I cinesi partono dalla situazione e cercano di farla maturare a loro vantaggio, sfruttando in qualche modo le “pendenze” che quella situazione presenta. Noi diamo al termine “opportunismo” una accezione negativa che loro probabilmente non darebbero ad esso affatto. Il saggio o lo stratega militare deve prendere atto della realtà, non “modellarla” secondo i suoi fini: deve assecondare quei processi che permettono poi alla realtà di trasformarsi. Sun Tzu. un grande stratega militare del V secolo a.C. e uno dei padri della cultura cinese, scriveva che “le truppe vittoriose sono quelle che accettano il combattimento solo quando hanno già vinto. Le truppe vinte sono quelle che cercano la vittoria solo nel momento del combattimento” Quindi la cultura cinese impone, da una parte, un grande adattamento alla realtà, ma, dall’altra, una costante attenzione ad individuare i punti dove la realtà può essere piegata o indirizzata a nuovi sviluppi. Quindi il modo di agire dei cinesi, tramandatoci dalla loro cultura, è quello indiretto. Noi agiamo per cambiare radicalmente le cose, loro vogliono trasformarle attraverso un fare amichevole. La loro logica quindi non è la logica del piano e non è una logica della “precisione. Il filosofo francese Alexandre Koyré diceva che la modernità ha segnato il passaggio “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione” (è il titolo di un suo noto saggio del 1957). Quella dei cinesi resterebbe, in quest’ottica, una logica del “pressappoco”. Spesso i cinesi vengono accusati di non rispettare i contratti. Il fatto è che per loro il contratto non ha la forma rigida che ha per noi: è piuttosto un processo, qualcosa che continuamente si trasforma. I cinesi hanno ovviamente i loro fini, ma essi credono molto nella negoziazione.
Quindi, stante questa interpretazione, quello che è successo in questi ultimi decenni esemplificherebbe in qualche modo il loro modo di agire. Entrando nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ad esempio, essi hanno accettato le nostre regole e lo hanno fatto fino a che non ci hanno chiesto di collaborare più attivamente con loro. Nel frattempo, però, i rapporti di forza fra noi e loro erano cambiati. Quelle collaborazioni sono, in qualche modo, perdenti ab origine . Questo elemento culturale va tenuto molto presente perché non credo che il nostro modello di opporci frontalmente ai cinesi possa essere vincente: sostanzialmente è troppo tardi. Però conoscendo ciò che è tramandato nei loro trattati, conoscendo anche l’orgoglio che hanno della loro cultura e della loro civiltà, tutte queste cose avremmo dovute saperle. Anche se hanno vissuto come una ferita da rimarginare la nostra potenza tecnologica, essi non si sono mai sentiti inferiori all’Occidente e né hanno mai cercato di emularlo. La Cina, quasi senza farsene accorgere, è penetrata nel nostro mondo più di qualsiasi altra civiltà. Ma era da immaginarselo. E infatti da subito grandi pensatori occidentali come Pascal, Montaigne, Montesquieu, avevano messo a tema questa “esteriorità” cinese. Montaigne, ad esempio, scriveva: “… in Cina Regno dal quale il governo e le arti senza rapporto con la nostra e conoscenza di esse superano di eccellenze i nostri sotto diversi aspetti e la cui storia insegna quanto il mondo sia più ampio e vario di quello che gli antichi e noi possiamo concepire …”.
Ora tutto questo crea dei problemi grossi per la democrazia, per le libertà individuali, perché i cinesi non hanno una idea di individuo come abbiamo noi. Anche il loro leader è da considerarsi più che altro un timoniere: uno che aiuta il popolo cinese a fronteggiare le onde, quindi a considerare continuamente la situazione per tenersi in piedi nel modo migliore. Non avendo il concetto di individuo, è evidente che ogni insistenza nostra sulle libertà personali e sui diritti individuali ai cinesi dice poco, perché per loro è la comunità tutta che deve in qualche modo riuscire a raggiungere dei risultati. Poi c’è il problema del cristianesimo e dei rapporti del Vaticano con la Cina.
Il Cristianesimo in Cina non ha avuto successo, non ha mai attecchito nella società. Fra l’altro, il cristianesimo di Stato non è il cristianesimo basato sull’autonomia morale dell’uomo che è il nostro. Questo è un fatto fondamentale. Quindi la nostra fondamentale preoccupazione dev’essere: come preservare i nostri valori dall’ondata cinese, la quale è in qualche modo un attacco al liberalismo. Il fatto è che non possiamo contare né in una contrapposizione frontale, essendo nel mondo contemporaneo i nostri legami strettissimi, né in una non frontale, in cui sarebbero senza dubbio vincenti. Un vero dilemma.
*Corrado Ocone, filosofo, saggista