Prima la natalità
Questo saggio di Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20.” della Fondazione Farefuturo.
L’affermazione secondo cui il valore assoluto del Pil prodotto in un paese dipenda significativamente dal numero dei suoi abitanti riflette un principio ragionevolmente accettato. Nessun lussemburghese perderebbe il sonno scoprendo che il Pil del «florido» Principato (60,1 miliardi di Euro nel 2018 con una popolazione media di 608 mila abitanti) è largamente inferiore a quello della «sofferente» Grecia (184,7 miliardi con 10,7 milioni di residenti). E benché sia noto come, nel determinare il Pil, il dato sulla consistenza demografica venga a sua volta corretto attraverso quattro fattori p moltiplicativi – la frazione di popolazione in età attiva, la quota di quest’ultima propensa a lavorare, l’incidenza di occupati entro tali «attivi» e, infine, la produttività media per addetto – è altrettanto risaputo che è proprio il totale della popolazione ad agire spesso come elemento prevalente.
Se dunque un peso demografico di tutto rispetto appare determinante affinché un’economia, e quindi un paese, possa ritenersi «importante» e mantenersi tale, quanto possono influire gli effetti di una crisi demografica nel ridisegnare i rapporti di forza nella geografia del pianeta? Proviamo a fare qualche riflessione prendendo ad esempio la realtà del nostro Paese. Secondo le più recenti stime nel quadriennio 2015-2018 il Pil italiano ha mostrato una crescita del 3,87% laddove la popolazione residente si è ridotta, nello stesso arco temporale, dello 0,51%. In assenza di calo demografico la crescita del Pil italiano sarebbe dunque stata di mezzo punto superiore. Ma non è solo una questione di numero di abitanti, c’è anche un altro fattore di cambiamento demografico che ha contribuito a frenare lo sviluppo economico del Paese: la variazione della frazione di popolazione in età attiva.
Tra gli anni 2015 e 2018 il peso relativo dei residenti in età 15-64 anni è infatti sceso di 0,56 punti percentuali, togliendo così un ulteriore mezzo punto alla crescita del Pil.
Possiamo dunque oggettivamente concludere che, unicamente per via della crisi demografica in atto: Nello specifico, benché i suddetti correttivi, considerati nel loro insieme, favoriscano marcatamente il Lussemburgo – attribuendo a ogni suo abitante un contributo al Pil pari a sei volte quello fornito da ciascun residente greco – ciò non impedisce che, qui come in molti altri casi analoghi, sia ancora l’ammontare della popolazione a fare la differenza, nel definire la dimensione, anche economica, di un paese. Valori a prezzi di mercato, concatenati (anno di riferimento 2015), destagionalizzati e corretti per gli effetti di calendario (Istat, Statistiche Flash 29.11.2019). E prescindendo dagli effetti delle altre tre componenti che agiscono sul Pil (tasso di attività, livello di occupazione e abbiamo perso poco più di un punto di crescita negli ultimi quattro anni. E se guardiamo in avanti ci rendiamo subito conto che anche ciò che va configurandosi non é affatto confortante.
Sul fronte della consistenza numerica, mentre i 60 milioni e 360 mila residenti a inizio 2019 – già scesi a fine agosto (ultimo dato disponibile) a 60 milioni e 253 mila – si prevedono destinati tra vent’anni a un modesto calo (-1,58%), ben più dirompente sarà la riduzione della quota di residenti in età attiva (-11,7%). Non vi è dubbio che per immaginare che gli altri tre fattori che governano la crescita del Pil siano in grado di compensare variazioni di questa portata occorrerebbe un forte ottimismo. Specie se si tiene conto che le dinamiche che stanno oggi alla base di un tale cambiamento demografico non danno alcun segnale di inversione; anzi, tutt’altro.
È ben vero che il saldo naturale della popolazione italiana è stato (pressoché costantemente) negativo già a partire dai primi anni ’90, ma era un deficit regolarmente compensato da un bilancio migratorio in attivo. Da tempo si è ormai visto che tale apporto non basta più (né basterà) a sostenere la crescita della popolazione, stante la natura strutturale e la forte intensità del sorpasso delle morti sulle nascite: da 193 mila in più nel 2018, a 219 mila stimate per il 2019 sino alle 266 mila previste nel 2039.
Ma dopo una siffatta diagnosi, esiste una terapia? È ipotizzabile una via per venirne fuori? La buona notizia è che la tendenza alla denatalità si può contrastare: occorre solo modificare le condizioni di contesto entro cui si esprimono i comportamenti riproduttivi; ossia quelle scelte, maturate tra rinvio e rinuncia, che hanno portato le coppie a migliorare ogni volta, anno dopo anno (dal 2013), il record del minor numero di nascite in oltre 150 anni di Unità Nazionale. La cattiva notizia è che occorre agire in fretta, senza illudersi che esistano aiuti esterni o magiche soluzioni. Se vogliamo affrontare seriamente il problema della denatalità nel nostro Paese è necessario che ci si muova combinando gli strumenti della politica e della cultura. Dobbiamo prendere atto che sino ad ora è stata la logica del contrasto alla povertà a dominare le scelte di politica familiare, non il sostegno alla natalità. Che abbiamo spesso introdotto – anche per oggettive difficoltà di bilancio – soglie di reddito destinate a escludere gran parte delle famiglie da qualunque forma di supporto alla genitorialità, mentre l’esperienza di altri paesi ha chiaramente mostrato come l’unica efficace strategia fosse quella derivante dalla combinazione tra servizi di cura (accessibili), misure di conciliazione tra maternità e lavoro e interventi fiscali e di supporto economico concepiti a favore (anche) della classe media. I circa 300 mila nati in più in Francia (con una popolazione pressoché simile alla nostra) o la crescita di 100 mila registrata in Germania nell’ultimo quinquennio – quando da noi accadeva il contrario – sono la dimostrazione che non è con sussidi riservati ai redditi più bassi, di importo modesto e limitati nel tempo che si invertono le tendenze.
Occorrono risorse nuove, ma servono anche capacità (e fantasia) per immaginare soluzioni nuove, o semplicemente per recuperare e valorizzare interventi – il Piano Nazionale sulla Famiglia fermo dal 2012 ne suggeriva di validi – che possono avviare la cura di questa nostra demografia malata.
*Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat