Primarie del Centrodestra, dalla tattica alla strategia
In Italia, fino a ieri, quasi nessuno credeva alle primarie del centrodestra come elemento strategico all’orizzonte, e tutti le ritenevano una mera invocazione tattica, variamente funzionale agli esponenti che la avevano formulata di volta in volta. Così, da un lato, esse venivano strumentalizzate come richiamo di consenso per i giovani; dall’altro, come presa di tempo per un anziano ex leader in ambasce; dall’altro ancora come utile minaccia per alleati irrequieti, sempre poi attentamente lasciata cadere al momento dell’accordo.
Tutti o quasi credevano che le primarie non servissero, o che se realizzate una volta, per finta, ed immancabilmente vinte dal predestinato, esse non sarebbero poi più servite. Si presumeva infatti che il potere politico nel centrodestra potesse o dovesse essere detenuto per lunghi periodi, e che a un sistema ventennale (Berlusconi) ne sarebbe seguito un altro (l’erede). Restava solo da capire quale sarebbe stato l’erede, ed accodarvisi. Non si doveva dunque perdere tempo lambiccandosi in inutili discussioni sulle regole. Si doveva procedere ognuno senza legarsi, senza limitarsi le possibilità, per essere pronti tutti, in qualunque momento, a cogliere quel treno, quando fosse partito, dimenticando la tattica delle primarie, nel nome della nuova, imprecisabile, strategia.
Quando le primarie venivano proposte, quindi, ne venivano immaginate una valenza e una modalità solamente simboliche (recte, addirittura: liturgiche) perché non si voleva progettarle in modo che la macchina fosse da sola in grado di partire – temendola poi in grado di sfuggire di mano al nuovo leader. Non può sorprendere che ricorresse così spesso la considerazione esterna rivolta all’indirizzo degli esponenti: “ne parlate, ma non ve le lasceranno mai fare”, almeno quanto era davvero comune sentire, dal lato interno, l’altra confessione “proponiamole, tanto non si faranno mai”.
Tutto questo oggi vacilla.
Non c’è stato solo il referendum di ieri, che ha riaperto la partita delle primarie del PD eliminando le vacue ipotesi di scissioni e l’ipotesi di una successione Renziana di Silvio Berlusconi; ma sono ormai diversi gli esempi storici, susseguenti e tra loro ravvicinati – in paesi occidentali sempre più legati da un comune sentire dell’opinione pubblica – che stanno facendo velocemente penetrare nella mente degli elettori italianissimi, e dei nostri disperati e disperanti esponenti politici, un approccio affatto diverso nei confronti dello strumento rappresentato dalle primarie.
Il socialismo europeo in Italia, il gollismo in Francia, il conservatorismo negli Stati Uniti erano e sono sistemi stabili, eppure sono stati tutti scalati, ed in ognuno di essi l’elemento delle primarie ha determinato i rivolgimenti diventando il fattore chiave nell’intrattenimento degli elettori.
Proprio i casi di Renzi, Trump e Fillon hanno reso conclamata l’evidenza che non esistono sistemi di potere non scalzabili, che la forza degli incumbent non è più così insuperabile, e che il dominio dei sistemi di informazione pubblici o privati, nonché degli istituti di sondaggi, non basta più a frenare le idee e le narrazioni dirompenti, che abbiano il potere di eccitare emotivamente le masse tramite il video o tramite il web. Nuovi e vecchi esponenti, pertanto, cercano la possibilità di queste sfide, un tempo impensabili, e lo fanno con rinnovata baldanza.
Vediamo come.
Il fattore determinante di una avventura politica sta diventando la sua capacità di partecipare di quel carattere di intrattenimento che ormai bollina ogni intrapresa vincente del nostro nuovo secolo. Tutti, infatti, vogliono divertirsi ed anche la politica può tornare interessante, se sa offrire ciò che è richiesto. La lezione del moderno intrattenimento di massa è che esso, per mantenersi, richiede un format, che unisce una riconoscibilità esterna, una accessibilità pressoché gratuita, una ripetitività stabile nel tempo, e un elemento d’interesse variante di volta in volta, che differenzi ogni pièce dalla precedente.
Applicando questa chiave di analisi si vede che è possibile concepire uno schieramento politico come un canale comunicativo; che un sistema di primarie aperte può essere rappresentato come una sequela di puntate; ed infine che i contenuti d’interesse sempre nuovi, possono essere anche programmi politici, sia espliciti (le proposte) sia impliciti (le persone). In questo schema l’interesse per le leadership non nasce più dal trattato politico, ma dal video, dal tweet, dal post. Elementi più piccoli, e più accessibili, che iniziano a rassomigliare ai requisiti di accesso a un talent show.
Si inizia pertanto ad apprezzare il leader prima di conoscerlo in quanto tale, si prosegue conoscendolo nella sua campagna esplicita per divenirlo, e lo si vota infine quando l’insieme delle due cose è ormai immaginabile. Il tutto, per non annoiarsi, avviene durante la sua competizione contro qualcun altro (il contest), realistica e sentita in quanto non motivata dall’intrattenere uno spettatore, ma dalla legittima ambizione, per il potere come per un titolo. Il vantaggio per tutti è che se l’elettore si diverte è meno probabile che accada che, deluso dal leader, decida di cambiare il canale (lo schieramento), quando può semplicemente aspettare un poco per partecipare – a un prezzo basso – alla nuova, entusiasmante, puntata.
Può enunciarsi il principio che lo schema tanto più funziona quante più tra queste condizioni ricorrono:
- La riconoscibilità del format (la pubblicizzazione iniziale);
- L’accessibilità della selezione (candidatura ed elettorato aperti);
- La affidabilità della ripetizione di essa (obbligo per legge o per statuto);
- La stabilità della modalità per influire sull’esito (delle regole trasparenti e non arbitrarie).
I casi di primarie di successo dimostrano che è proprio la certezza che la prossima puntata arrivi a creare l’incentivo per non cambiare canale. Lo hanno capito quei leader più innovativi e comunicativi che hanno intrapreso attività di lungo corso sui social networks e sui siti di opinione, e che si sono astenuti dal cambiare formule e schemi politici troppo spesso, rifuggendo dal creare sempre nuovi simboli, ma scegliendo di sfidare sistemi stabili, laddove questi gli avessero consentito di credere nella affidabilità del prossimo appuntamento di confronto. Il sistema delle primarie ha quindi valore in sè, in quanto innalza la competitività dell’intera area politica di riferimento, eliminando ogni problema di unità dal giudizio nel voto elettorale secondario, consentendo di sfogarlo in un meccanismo che ne anticipa la maturazione ad una fase precedente.
Il problema dell’unità delle forze politiche non può essere sottovalutato in Italia, perché storicamente ha funestato le leadership del centrodestra e del centrosinistra. Si ricordano i casi di Berlusconi, che perse quando una volta la Lega ed un’altra l’UDC fuoriuscirono dall’alleanza, e del centrosinistra, che perse quando l’ala di sinistra divenne percepita come disomogenea ai DS per aver fatto cadere i governi di Prodi. Sono poi molteplici i casi di crisi intra-legislatura innescati da scissioni concepite per le successive fasi elettorali, come quelle già richiamate nel centrodestra che, solo tra i due schieramenti, ancora si ostina a rifiutare il sistema.
Si rifletta che, rispetto ad un centrodestra italiano dove abbiamo visto Fini, Alfano, Meloni e Fitto costretti a scindersi ripetutamente dal recinto dell’antico PDL di Berlusconi – negli altri esempi di schemi di primarie di successo citati si è potuto vedere Fillon e Juppè convivere con Sarkozy, Renzi convivere con Bersani, e candidati dirompenti come Paul o Trump convivere con McCain o Romney, evitando le scissioni e il multipartitismo, nel nome di un equilibrio e di una alternanza di più anime sotto gli stessi simboli.
Cosa si muove oggi per le primarie?
Quattro sono i fattori politici, anzitutto, il definitivo tramonto anagrafico di Silvio Berlusconi. A seguire, la maturata consapevolezza che Renzi da solo non vince e che la successione da Berlusconi a Renzi è una fantasia. Ulteriormente, il fatto che nonostante ciò Grillo non salga nei consensi, e che Roma stia diventando la sua Dien Bien Phu. Infine, la sbalorditiva evidenza matematica che il centrodestra diviso, se sommato, rimarrebbe comunque la forza maggiore in Italia, mentre in tutto il mondo le destre guadagnano consensi.
All’appello silenzioso di tutti coloro che su queste basi riconsiderano più seriamente le primarie sono chiamati tre esponenti già in campo, prima di ogni altro sopravvenuto. Si tratta di Giorgia Meloni, Raffaele Fitto e Matteo Salvini. La prima fece saltare le primarie a Roma pur avendole rivendicate sul piano nazionale, il secondo abbracciò lo strumento solo in ritardo dopo la scissione di Alfano, il terzo ancora recentemente si è mostrato ondivago in tema sul piano nazionale. Tutti e tre, però, dopo essere stati utilmente provocati da campagne sane –tra le quali la Fondazione Farefuturo è stata protagonista– ne hanno parlato e ancora ne parlano.
Tutti e tre, se insieme credessero per davvero a un cambio di passo ed imponessero le primarie a Silvio Berlusconi, annunciando insieme un calendario ravvicinato, che-FI-ci-stia-o-meno e precisando l’intento di farle diventare un metodo, riscriverebbero il futuro del centrodestra, e restituirebbero a un’area politica da ormai sei anni divisa e ininfluente, la possibilità di contribuire positivamente ai destini del paese.
*Giovanni Basini, collaboratore Charta minuta