Quale presidenzialismo per l’Italia?
Il Parlamentarismo e i suoi limiti
Negli anni della cosiddetta “prima Repubblica” (a mio avviso però la sola e unica che abbia avuto l’Italia), una contrapposizione significativa spesso risorgente nel dibattito politico (sia a sinistra sia a destra) fu quella tra “parlamentaristi” e “presidenzialisti”. In verità, già alla Costituente non erano mancate né le voci dubbiose su un parlamentarismo privo di contrappesi né i giuristi – molti tra loro autorevoli – che si erano dichiarati in favore del presidenzialismo perché timorosi delle crisi che un parlamento sovraccarico di funzioni ed aspettative avrebbe prima o poi dovuto sopportare; emblematica appariva l’esperienza del parlamentarismo negli anni passati, dalla III Repubblica francese alla Germania di Weimar. E così si espressero per un rafforzamento del potere di governo Costantino Mortati, Calamandrei, Einaudi; ancora proprio Mortati propose che il Capo dello Stato fosse eletto dai rappresentanti dei partiti ma soprattutto dei principali raggruppamenti economici, categoriali e territoriali, consapevole che la legittimazione del Presidente della Repubblica doveva essere di genere e qualità diversi rispetto a quella del Presidente del Consiglio dei ministri. È opportuno anche ricordare l’ordine del giorno a firma Tomaso Perassi del 4 settembre 1946, che pur introducendo il parlamentarismo, invocava esplicitamente dei correttivi: «La seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare degenerazioni del parlamentarismo» (corsivi miei).
L’idea di una forma di governo parlamentare in sé problematica era ben chiara già ai nostri costituenti perché l’esperienza era lì a dimostrare che ogni sistema del genere, prima o poi, entra necessariamente in crisi. Che il presidenzialismo non fosse adatto alle condizioni della società italiana poteva ancora avere una sua spiegazione all’indomani della caduta del fascismo, ma il rifiuto pregiudiziale di questa forma di governo oggi non ha più nessuna motivazione logica o sociologica (e tanto meno politica), dinanzi ai guasti che un parlamentarismo esasperato ha prodotto negli anni a livello politico e sociale. Il tema della decisione e della governabilità è stato non solo vieppiù accantonato ad ogni revisione fallita della costituzione, ma addirittura marchiato, contro ogni buon senso, con lo stigma dell’autoritarismo. La verità, al contrario, è che l’idea di una revisione in senso presidenzialista del nostro sistema politico – pur nei limiti e con le accortezze di cui dirò – è oggi funzionale esattamente ad una ripresa del discorso sulla democrazia e sulla partecipazione politica.
Com’è noto, è in corso una raccolta di firme per chiedere che il Presidente della Repubblica venga eletto direttamente dal popolo. Va innanzitutto precisato che questa richiesta non segnala tuttavia una scelta univoca a favore del “presidenzialismo” tout-court, il quale presuppone qualcosa di più che una elezione popolare e precisamente, sia dal punto di vista concettuale sia da quello storico, una identificazione o per lo meno un rapporto stretto tra le figure di Capo dello Stato e Capo del governo. Non a caso, benché a mio avviso impropriamente, si parla di presidenzialismo per gli Stati Uniti, dove le due figure si unificano in una sola persona, e di semi-presidenzialismo per la Francia, dove Capo dello Stato e Capo del governo sono figure distinte. Riferendosi a queste due esperienze si ritiene infatti che il presidenzialismo presupponga un Capo dello Stato con più poteri e che il semi-presidenzialismo attenui questi poteri; si dimentica, però, che gli Stati Uniti, nonostante la generalizzata credenza contraria, sono una Repubblica più parlamentare che presidenziale, in quanto dal punto di vista formale (costituzionale) i poteri più incisivi appartengono al Congresso (e sempre più alla Corte Suprema), con il quale il Presidente è non di rado costretto a trattare da posizioni di inferiorità. In effetti esiste una costituzione scritta che dice certe cose e una prassi costituzionale che ne consente altre. Il ruolo del Presidente americano è determinato in buona parte dal fatto che l’America è una federazione di Stati, che hanno conservato moltissimi poteri, e che il Presidente è innanzitutto il garante di questa federazione. Molti poteri del Presidente sono in verità poteri auto-attribuiti. Vero ‘presidenzialismo’, al punto di essere quasi una monarchia, è paradossalmente il presunto ‘semi-presidenzialismo’ francese, almeno quando tra il Presidente della repubblica e il Capo del governo c’è omogeneità politica e non “coabitazione” tra esponenti di forze politiche differenti (per esempio gollisti e socialisti, come è accaduto in passato). Significativo che quando c’è questa identità la lotta politica è costretta a spostarsi direttamente nelle strade, sta succedendo con la “monarchia” di Macron.
Che cosa si intende, allora, quando ci si dichiara in Italia presidenzialisti? A mio avviso si tratta più che altro di una posizione critica nei confronti di una situazione di decadenza istituzionale e propositiva per un rinnovamento dello Stato: si vuole segnalare un difetto genetico dell’ordinamento giuridico italiano, che è nato e pregiudizialmente fondato sulla centralità del parlamento e su una ‘paura del governo’. La costituzione italiana, prima che antifascista, è una costituzione che fa i conti con il ventennio fascista e comprensibilmente vuole marcare una separazione: se il fascismo aveva umiliato la rappresentanza parlamentare, il nuovo Stato democratico doveva fare esattamente il contrario, mettendo al centro il parlamento, tanto che si è voluto persino creare un bicameralismo per evitare tanto più qualunque deriva autoritaria dell’esecutivo rafforzando il procedimento di formazione delle leggi (il risultato è stato invece di renderlo semplicemente più lungo e difficile, oltre che più costoso). Questo è il vizio d’origine dell’attuale sistema politico, perché un parlamento, anche nel moderno Stato di diritto (anzi solo in esso, avendo in passato i parlamenti funzioni diverse, come per esempio quella giudiziaria: un residuo è in Gran Bretagna la Camera dei Lords, dalla quale provengono i membri della Corte Suprema), non può governare, ma solo deliberare quelle che una volta erano le leggi “generali e astratte” (oggi in buona parte sostituite da leggi-provvedimento e frammenti di legge) e controllare l’azione del governo, il quale non dovrebbe mai essere considerato veramente solo come ‘esecutivo’ ed avere una sua indipendenza e una diretta legittimazione popolare che gli consenta scelte e decisioni autonome, sia pure responsabili nei confronti del corpo elettorale e della sua rappresentanza; un governo può essere ‘esecutivo’ di un legislativo quando questo è più o meno omogeneo, come per esempio in Italia dopo l’unità, quando la Camera rappresentava un corpo elettorale del due per cento della nazione, ma difficilmente quando un paese è diviso in classi, gruppi, ideologie, interessi diversi e spesso opposti, qual è attualmente la condizione socio-economica del paese.
In altri termini, tutte le volte che liberali e democratici hanno pensato di mettere al centro dell’ordinamento costituzionale la rappresentanza parlamentare in un contesto non più monoclasse (per ricordare le analisi di Massimo Severo Giannini), ma sociologicamente e culturalmente plurale e conflittuale, si sono esposti e si espongono alla nascita inevitabile dell’antiparlamentarismo. La critica al parlamentarismo è infatti organica ad ogni sistema schiettamente parlamentarista, come sanno gli storici delle istituzioni, che possono rintracciarne manifestazioni già negli anni Ottanta dell’Ottocento in Italia, in Francia, in Germania. Un testo classico della critica al parlamentarismo è stato quello di Carl Schmitt, del 1923, al quale sempre è bene rinviare: in La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo egli scriveva: «dacché esiste un parlamentarismo si è sviluppata parimenti una letteratura della critica a questo parlamentarismo» (cito dalla traduzione italiana, Giappichelli, 2002, p. 25). Dall’Ottocento in poi il parlamentarismo, che nasce liberale, ha dovuto, infatti, sempre più fare i conti con un ospite scomodo: la democrazia. Se oggi la sinistra invoca la centralità del parlamento in nome della democrazia mente sapendo di mentire (almeno nel caso di coloro i quali hanno ancora un minimo di educazione politica), tanto che alla prova dei fatti gli esponenti della sinistra non si esimono dall’invocare quella “brutta bestia” che sarebbe esattamente il popolo, ovvero l’elemento democratico che per loro deve essere espunto dal parlamentarismo tutte le volte che il popolo non è d’accordo con le scelte fatte dei suoi rappresentanti. Il parlamentarismo ha un’origine non democratica, specificamente borghese nel senso di voler essere funzionale ad una classe molto limitata di persone, classe che storicamente si è contrapposta prima alla monarchia e poi al proletariato e in genere alle classi popolari. Non è un caso che la sinistra rivoluzionaria all’inizio del Novecento, da Lenin a Lukàcs, abbia radicalmente criticato quello che definiva il “cretinismo parlamentare” della socialdemocrazia riformista dei Kautsky e dei Bernstein. Un teorico della democrazia parlamentare ma realista come l’austriaco Hans Kelsen definisce poi il parlamentarismo, privandolo dunque del suo nerbo ideale specificamente borghese, come un metodo per la formazione dell’ordinamento statale e la democrazia come una procedura per la scelta dei capi.
Il parlamentarismo è dunque un elemento solo eventuale nella formazione degli ordinamenti politici e non è necessariamente connesso con la prospettiva democratica, come si cerca di far credere oggi. Ne è una dimostrazione la sua degenerazione graduale ma inevitabile dalla nascita della Repubblica fino alla sua condizione attuale: se i caratteri classici del parlamentarismo sono la discussione e la pubblicità, nel senso di un dialogo aperto e pubblico per arrivare a decisioni (leggi) fondate e giustificate nella razionalità specificamente borghese dell’Ottocento (Stato legislativo), ognuno vede, oggi, che ruolo e funzioni dei parlamenti – dalla formazione dello Stato amministrativo nella crisi a cavallo tra Otto e Novecento all’odierno Stato che io definisco post-costituzionale – si sono trasformati nell’esatto contrario, mancando alle assemblee rappresentative (anche per come costruite da leggi elettorali sempre più discutibili) ogni capacità dialogica, ogni razionalità, ogni idealità, essendo le aule parlamentari un teatro di recite a senso unico, di monologhi di scarsissima qualità, quando non luoghi deputati allo scambio di insulti e di volgarità. È quindi opportuno e giusto ricordare che democrazia e parlamentarismo non si identificano, che anzi il parlamentarismo è stato spesso, nella sua inevitabile fase degenerata, la morte della democrazia e in generale della politica, e ciò tanto più è vero nell’epoca in cui i partiti non sono più collettori di consenso sul territorio, ma formazioni calate dall’alto sulla società civile. Il parlamentarismo nella sua fase ultima e agonica è tra i principali responsabili della morte della politica e della partecipazione della gente. Insistere, oggi, specie da parte della cosiddetta sinistra, nella difesa di questa forma di (non)governo significa dare poteri non legittimati ad organi diversi dal parlamento, da un lato ad un governo calato spesso dall’alto (se non dall’estero), dall’altro alla magistratura, in tutte le sue forme, da quella ordinaria che decide del futuro dell’industria italiana (vedi il caso dell’Ilva di Taranto) a quella costituzionale che decide su cosa sono e cosa devono essere i ‘diritti’.
La proposta presidenzialista va dunque interpretata innanzitutto come la presa di coscienza, politica e dottrinale, dei limiti dei parlamenti e della loro irrilevanza in presenza di una irresponsabile e pregiudiziale ideologia parlamentarista. Non è vero che i presidenzialisti sono contrari alla democrazia parlamentare, anzi, al contrario, essi sono gli unici che si sforzano di proporre una via d’uscita per ridare senso e dignità alla rappresentanza parlamentare, determinandone i limiti, limiti che sono strutturali prima che funzionali. La concezione realista della politica sa bene che la decisione politica deve poter prescindere da una discussione infinta (la famosa clasa discutidora di Donoso Cortès) determinata da interessi parziali e frammentari spesso indifferenti all’interesse nazionale; se il parlamentarismo originario (ideologico) pensava che dalla discussione sarebbe uscita una decisione razionale e logicamente fondata, l’esperienza dimostra, in una società prima policlasse e oggi, nella cosiddetta ‘post-modernità’, semplicemente orizzontale (cioè priva di differenze di qualità, omogeneizzata verso il basso), che l’interesse generale (nazionale o altro) può essere garantito solo da una capacità decisionale che in ultima istanza non sia mediata da forme giuridiche autonome rispetto all’organo decisorio (e quindi contro-poteri), ma unicamente di controllo della decisione stessa. In altri termini, oggi una democrazia possibile, per essere praticata e non soltanto retoricamente declamata, richiede un rapporto diretto con il popolo, non necessariamente in senso plebiscitario (è la critica facile che i parlamentaristi credono di poter fare ai loro avversari), quanto in senso partecipativo sia dal punto di vista politico (quindi universale) sia degli interessi concreti (partecipazione per settori).
Il discorso presidenzialista è dunque innanzitutto, oggi, la presa d’atto del fallimento del parlamentarismo e questo proprio in nome della democrazia e della partecipazione popolare quale esito di un conflitto politico; senza conflitto politico non si ha democrazia autentica e quindi nemmeno decisione; senza decisione non si ha conflitto politico e quindi nemmeno democrazia. Questo è quanto hanno capito anche importanti teorici della sinistra critica del neo-liberismo come, ad esempio, Chantal Mouffe: «Il problema principale delle attuali istituzioni rappresentative è che non permettono il confronto agonistico tra progetti differenti di società, condizione per una democrazia in vigore» (C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, 2019, p. 56). Anche se la Mouffe attribuisce la crisi della democrazia non al modello rappresentativo, ma alla mancanza di conflitto politico, è un fatto che il confronto agonistico a livello popolare viene limitato se si presuppone, pregiudizialmente, che esso debba svolgersi preferibilmente, se non solo, nelle aule parlamentari (di qui il recente rifiuto delle ‘piazze’, immaginate come anti-democratiche per principio). È sintomatico di questa crisi di agonismo e quindi di partecipazione che recentemente, in Italia, si sia rifiutato il confronto elettorale in nome del primato della ‘rappresentanza’, alla quale è stata di fatto attribuita la piena sovranità di contro ad una sovranità popolare ritenuta limitata ab origine. Per la sinistra italiana sovrano sembra essere il parlamento, non il popolo, ma si tratta di un principio che difficilmente sarebbe rinvenibile in costituzione nonostante la centralità che essa ascrive al parlamento.
Per la sua crisi evidente, il parlamentarismo appare sempre più non solo lesivo delle prerogative che un ordinamento politico democratico dovrebbe attribuire alla funzione legislativa parlamentare, ma limitativo della sovranità del popolo, compresso da poteri dichiarati e poteri occulti, economici e ideologici, interni e internazionali, che di fatto sottraggono ai cittadini ogni reale possibilità di partecipazione, diretta o indiretta, alle scelte politiche. La crisi dei partiti, il globalismo, il pensiero unico, le organizzazioni sovranazionali mai legittimate dal basso hanno fatto del popolo un’entità amorfa, senza storia e senz’anima, oggetto di scelte prese sempre in nome di qualcosa che è altro dal principio della sovranità popolare. In quest’ottica e su queste premesse il presidenzialismo, che pure non è privo anch’esso di ambiguità di cui dirò fra poco, dev’essere inteso innanzitutto come un tentativo di ridare voce ai cittadini, anzi di fare dell’entità amorfa, atomizzata, che è oggi il ‘popolo’ del liberalismo parlamentarista, un insieme non di sudditi, quali inevitabilmente diventano nella prospettiva pseudo-aristocratica dei parlamentaristi che sanno tutto ciò che il popolo non sa e non deve sapere, ma esattamente di cittadini che confliggono tra loro con le loro idee partecipando ad un agone politico che deve portare ad una decisione. Il ‘presidenzialismo’ è dunque da intendere innanzitutto come un mot de combat per dare senso e contenuti alla democrazia in crisi, per riportare i cittadini ad essere soggetti attivi e in grado di partecipare responsabilmente e consapevolmente alla politica.
Il presidenzialismo e i suoi problemi.
Dicevo però prima che anche il presidenzialismo, declinato in positivo, non è nemmeno esso privo di problemi, di cui è necessario essere consapevoli pur essendo suoi sostenitori. Si può riformare la costituzione del 1948 in senso ‘presidenzialista’? Preliminarmente occorre avere consapevolezza di due problematiche rilevanti:
- Le costituzioni in senso moderno hanno perduto la loro “forza propulsiva”.
- Non è facile cambiare in maniera sensata (coerente) le costituzioni vigenti.
Per quanto riguarda il punto sub a) va sottolineata una linea di ricerca scientifica che viene in Italia sottovalutata per la prevalenza dei discorsi sulla “costituzione più bella del mondo”, che si deve semplicemente difendere nella sua integrità contro i presunti anti-democratici che vorrebbero stravolgerla. In realtà, pur essendo la costituzione del 1948 una costituzione seriamente pensata e fornita di una sua coerenza intima (in buona parte però dissolta da riforme sconsiderate come quella del Titolo V nel 2001, riforma ‘aggiustata’ solo in sede di sentenze della Corte costituzionale), il suo fondamento ‘parlamentarista’ e soprattutto la sua ‘paura del tiranno’, ovvero di governi autorevoli e forti, hanno creato una situazione pseudo-costituzionale del tutto diversa dai fondamenti originari di quella costituzione: da un lato, il governo, con lo strumento prima dei decreti-leggi e oggi dei voti di fiducia, ha finito (inevitabilmente) col prevaricare sul parlamento, ridotto ad un’assemblea senza una propria indipendenza rispetto al governo, ma dall’altro questo inevitabile ‘corto circuito’ costituzionale ha fatto crescere a dismisura il potere dei giudici, non solo quello dei giudici costituzionali ma anche quello dei giudici ordinari e amministrativi.
Questa debolezza delle “costituzioni parlamentaristiche” si associa oggi con quanto evidenziato da giuristi come Dieter Grimm e sociologi come Niklas Luhmann: le costituzioni – nell’epoca degli Stati cosiddetti ‘aperti’, delle organizzazioni sovranazionali, del crescente potere dei giudici, del globalismo ideologico, della negazione del valore dello Stato e così via – non sono più in grado di regolare effettivamente la vita politica delle nazioni. Secondo Grimm, professore alla Humboldt di Berlin e già giudice costituzionale tedesco, la costituzione così come l’abbiamo conosciuta finora, a partire dalle Rivoluzioni americana e francese, ovvero la costituzione (solo) giuridica, puramente normativa, ha perso la sua forza originaria. A suo avviso, nel momento in cui i còmpiti dello Stato si rimaterializzano, ricevono cioè una nuova sostanza sociale e politica all’altezza delle trasformazioni avvenute a partire dalla seconda guerra mondiale, lo Stato, nel perseguimento dei suoi fini, viene a dipendere in misura crescente «da forze sociali che dispongono di risorse politicamente rilevanti. La costituzione giuridica paga questi mutamenti con una perdita di significato» (Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, 1991, p. 153). La soluzione dei problemi non è più di natura meramente organizzatoria e negativa, ma positiva e materiale. «La costituzione può aiutare ad indirizzare verso la soluzione dei problemi, ma non rappresenta più la soluzione ai problemi stessi, come per molto tempo si è creduto e sperato. La costituzione non può più pretendere di regolare in maniera esaustiva l’esercizio del potere politico, secondo le ambizioni del costituzionalismo liberale. Di contro ad una costituzione normativa una nuova forma costituzionale, di natura politico-sociale, avanza le sue pretese».
Qualcosa di analogo aveva scritto anche Luhmann, secondo il quale «le prospettive sul futuro si sono dunque dislocate al punto da evidenziare quanto il costituzionalismo classico si fondasse su un’indefinita fiducia nel futuro. Ciò non significa necessariamente che si possa rinunciare alle costituzioni. Si dovrà tuttavia fare i conti con il fatto che la politica è tenuta a confrontarsi con problemi decisionali che non possono più essere ricondotti al vecchio paradosso della sovranità, bensì alle condizioni esterne della comunicazione sociale; che anche il diritto sarà esposto a questa pressione e non potrà più essere semplicemente concepito come regolamentazione di conflitti, ma impiegato per la produzione di comportamenti specifici. E forse il fascino della Legge fondamentale, delle sue professioni di valore, l’idea di un’istanza suprema gerarchicamente garantita e l’uso quotidiano di tale regolamentazione non fanno che illuderci sul tragitto percorso su una via che ha abbandonato ormai da tempo i suoi fondamenti» (Das Recht der Gesellschaft, Surkamp, 1993, p. 454).
In realtà , da quando scriveva Luhmann altra acqua è scorsa sotto i ponti. Nel mondo globalizzato retto dalle ‘reti’ delle corti supreme che decidono sulla base di un astratto bilanciamento di ‘princìpi’, le costituzioni hanno perso ulteriore forza propulsiva. Lo stesso ‘patriottismo costituzionale’ di qualche anno fa (Habermas) non è più nemmeno esso all’ordine del giorno, travolto dalle Carte sovranazionali dei diritti umani, che pretendono di imporsi alle corti giudiziarie travalcando ogni idea di frontiera. Voglio dire che è la stessa costituzione nazionale che oggi è in discussione e lo sarà sempre più nella misura in cui l’ideologia globalista dei princìpi universali pone l’astratto prima del concreto, ovvero l’idea di un ordine universale prima della concreta pluralità degli Stati, esito naturale dell’idea per cui la costituzione viene prima dello Stato e non lo Stato prima della costituzione (si tratta di una distinzione che reputo fondamentale a livello del diritto costituzionale). I diritti vengono anteposti ai doveri e fondano direttamente un ordinamento giuridico universale di cui gli Stati (ex nazionali) sono per così dire solo gli organi attuativi. Si tratta di una problematica che in questa sede mi limito solo a ricordare, ma che è centrale per comprendere quale ruolo attribuire alle costituzioni nell’epoca della cosiddetta globalizzazione. Il presidenzialismo si associa dunque, idealmente e strategicamente, ad una nuova idea di costituzione intesa da un lato come organizzazione dello Stato politico esistente e non premessa e legittimazione dello Stato. Si tratta dell’idea di costituzione come “spazio simbolico comune” finalizzato ad organizzare i poteri e consentire la lotta politica democratica, una costituzione non rigida, ma flessibile e rivedibile ogni tot anni (era l’idea di Thomas Jefferson, l’autore della Dichiarazione di indipendenza americana). Il patto sociale che regge le costituzioni perde legittimità se non viene rafforzato con decisioni legittime, fondate sul consenso, con la conseguenza che le costituzioni si svuotano.
Sul secondo punto, va detto che riformare una costituzione non è facile, perché quando manca la spinta delle grandi fasi ‘supercostituzionali’ (guerre, guerre civili, catastrofi economiche) il rischio è quello di stilare non delle leggi fondamentali ma dei regolamenti di condominio. La riforma del governo Boschi/Renzi è da questo punto di vista emblematico: un pasticcio giuridicamente mostruoso, finalizzato a procurare oscuri vantaggi al governo allora in carica (cfr. A. Carrino, Anamorfosi costituzionale. Per la critica di una riforma postuma ed oscura, in Lo Stato, 2016). Se personalmente sono in astratto per una Assemblea Costituente per una nuova costituzione in senso presidenzialista e anzi per una Nuova Repubblica, dall’altro non posso nascondere che il rischio, considerando l’attuale degrado generalizzato della politica, è quello di avere un’Assemblea composta da una maggioranza assolutamente non all’altezza del compito, con la conseguenza di avere alla fine un prodotto assai meno valido di quello che si vorrebbe cambiare in meglio.
Da quanto detto consegue una visione complessa articolata su tre possibili mosse strategiche:
- La necessità, anche per ragioni politiche e culturali, di continuare ad insistere per una riforma costituzionale che porti all’elezione diretta del Capo dello Stato a poteri invariati tenendo presente che una elezione diretta rafforzerebbe comunque gli attuali poteri del Presidente della Repubblica, poteri che sono tutt’altro che irrilevanti specie in presenza di un parlamentarismo fallace. Si pensi al fatto, del tutto trascurato nella dialettica politica attuale, che in base all’art. 87.1 della costituzione il Capo dello Stato – ed è la sua prima caratteristica – «rappresenta l’unità della nazione». Ciò significa che egli non è solo il ‘notaio’ delle maggioranze parlamentari, ma qualcosa di assai più significativo: il Capo dello Stato sta al di sopra delle maggioranze parlamentari, anzi deve garantire che le maggioranze parlamentari uscite dalle elezioni o formate successivamente non rompano quella unità nazionale di cui egli è il supremo garante (domanda: ha Mattarella nel 2018 rispettato il suo ruolo quando ha dato l’incarico di formare il nuovo governo non al leader della coalizione che nelle elezioni aveva avuto più voti ma ad un signore sconosciuto?). Essere “Capo dello Stato” ha per di più un significato autonomo di specifica qualificazione funzionale che non può essere tralasciato. Ciò dà già all’attuale Presidente della Repubblica in quanto “Capo dello Stato” un ruolo che l’elezione diretta a poteri invariati di fatto finisce con l’accrescere notevolmente. Del resto, nel 1947, nella relazione di Ruini di accompagnamento al testo costituzionale questi sottolineava che il Presidente «rappresenta e impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze». Una sorta di ‘pouvoir neutre’ à la Carl Schmitt.
Va però anche sottolineato il rischio che una elezione del Presidente a poteri e costituzione invariati possa accendere conflitti di attribuzione tra una figura investita di poteri oggettivamente nuovi e gli altri organi costituzionali, con la conseguenza che il vero decisore in ultima istanza potrebbe finire con l’essere il giudice costituzionale. Anche per questo una riforma del sistema elettivo del Capo dello Stato dovrebbe andare di pari passo con una riforma dei poteri della Corte costituzionale, da definire meglio o in costituzione o con legge costituzionale per porre un argine alla deriva in atto – in tutti gli Stati occidentali – verso il Richterstaat (Stato dei giudici).
- La seconda linea strategica anti-parlamentarista dovrebbe essere rappresentata da una riforma organica della costituzione in senso ‘presidenzialista’. Ma cos’è una ‘repubblica presidenziale’? Di regola, come abbiamo visto, qui si pensa agli Stati Uniti d’America, che però è più una repubblica parlamentare che presidenziale. Tutte le volte che il Presidente ha dovuto imporsi lo ha fatto in circostanze particolari, ma sempre o patteggiando con il Congresso o andando contro la costituzione vigente. Il Presidente degli USA è un Presidente in e di una repubblica federale e in effetti il suo ruolo è strettamente legato al fatto che l’America è prima che ‘presidenziale’ una repubblica federale, dove gli Stati conservano ampi poteri insieme con i poteri del Congresso. Una repubblica federale dove, anche qui, il potere in ultima istanza è sempre quello dei giudici, in particolare della Corte Suprema. Occorre quindi discutere su cosa sarebbe più opportuno per l’Italia: un cancellierato, un presidenzialismo alla francese (che è il vero presidenzialismo ma anche un esempio di inefficienza critica in casi di ‘coabitazione’ tra Presidente della Repubblica e Primo ministro), un parlamentarismo rafforzato con un Capo dello Stato ‘neutro’? Qui il discorso resta aperto, specie ove al presidenzialismo si volesse associare una riforma in senso federale dello Stato, premesso che il federalismo è unificazione (foedus) e non divisione. Personalmente, ritengo che una riforma in senso presidenziale, anche se si fermasse all’elezione universale del Capo dello Stato, dovrebbe comunque ripensare il Titolo V della costituzione, organizzando senso e limiti di una rafforzata autonomia delle regioni o di nuovi enti territoriali sempre nel quadro dell’unità e dell’interesse nazionali. Presidenzialismo e federalismo restano un binomio costituzionalmente vincente.
- La terza linea strategica è rappresentata da un’Assemblea costituente per una NUOVA REPUBBLICA, che riveda il patto e ne costruisca uno nuovo, con una nuova costituzione all’altezza della situazione contemporanea e dei rapporti internazionali determinatisi dopo la fine del socialismo reale. Ciò anche in considerazione del fatto che l’Italia non ha veramente conosciuto una seconda, una terza o una n repubblica, ma solo una repubblica, quella nata con la costituzione del 1948 e che è in una crisi radicale da decenni. In questo caso, però, il discorso investe immediatamente non solo la forma di governo ma tutta la struttura dello Stato e le sue finalità e in particolare anche il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, nel Medio-Oriente e nell’Europa (quale Europa?). Delle tre linee strategiche questa è ovviamente la più difficile, se non improbabile, e più aperta al dibattito, al confronto e alle scelte, anche perché dovrebbe investire finalmente il ruolo della politica statale, ovvero internazionale, postulando delle scelte strategiche. Una Nuova Repubblica in una Nuova Europa potrebbe però rappresentare una piattaforma di confronto e di propaganda politico-culturale molto interessante, tale da identificare ancor più il soggetto politico che se ne facesse portatore.
*Agostino Carrino, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Università Federico II, Napoli