Rave party: il reato e i pregiudizi
Il Governo ha da poco approvato un decreto legge (n. 162 del 2022) contenente una disposizione che introduce una nuova fattispecie di reato, l’art. 434- bis c.p. (Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica): “L’invasione per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita”. Viene poi disposta la confisca delle cose utilizzate per commettere il reato, oltre alla la possibilità di irrogare misure di prevenzione personali.
In primo luogo vanno tenuti distinti i profili di legittimità dai profili di opportunità. Per quanto riguarda i primi, viene evocato l’art. 17, che proclama il diritto dei cittadini di “riunirsi pacificamente e senz’armi”. La norma ragiona di “raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” e di invasione “arbitraria” di terreni, il che sembra portare, nonostante una certa indeterminatezza della fattispecie, fuori dal perimetro della garanzia costituzionale.
Sotto il profilo della determinatezza, si può osservare che si tratta di un parametro che raramente ha portato la Corte a dichiarazioni di incostituzionalità, anche se molte fattispecie penali non sono del tutto in asse con tale principio. Il reato introdotto ne è un esempio e la pluralità dei fatti che astrattamente risulterebbero punibili è sintomo di una formulazione non certo impeccabile, di modo che verrebbe scaricato sulla giurisprudenza il compito precisare i contorni della fattispecie.
Quanto alla pena, la cornice edittale appare troppo elevata, anche se occorre costatare che la Corte sindaca l’entità della pena solo in casi di “manifesta” irragionevolezza, desunta spesso da una comparazione con altre fattispecie di reato (la Corte da tempo richiede il rispetto del “principio razionale di proporzionalità della pena al fatto”).
Si paventa un uso della norma per reprimere il dissenso politico, con violazione dell’art. 21 Cost. Ciò potrebbe accadere in astratto, ma solo se del concetto di ordine pubblico fosse data una interpretazione sconosciuta nel nostro ordinamento. L’ordine pubblico, espressione mai utilizzata dal Costituente, va inteso in senso materiale e non ideale, declinato come pubblica tranquillità e sicurezza e non come insieme di valori riconosciuti in un dato ordinamento, come ordre dans la rue e non come ordinamento politico ed economico costituito.
Si è ragionato di difetto dei presupposti di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost. Se non è agevole ravvisare nella fattispecie un caso straordinario di necessità e urgenza, va osservato che la Corte interviene al riguardo molto sporadicamente, solo quando la mancanza di questo presupposto si riveli del tutto “manifesta”.
Il secondo piano di valutazione è quello dell’opportunità. In primo luogo, vi sono controindicazioni all’uso del decreto legge. Se si è ipotizzata la possibilità di emendamenti in sede di conversione, si deve tener conto della immediata entrata in vigore del D.L. A parte profili di diritto intertemporale, il punto più spinoso potrebbe essere dato da possibili incisioni della libertà personale (eventuali arresti), consentite dal decreto legge ma non dalla legge di conversione.
Se la misura costituisce certamente un segnale politico, forse non è necessario sul piano del contrasto del fenomeno. Utilizzando gli strumenti previsti dall’ordinamento, i rave party potrebbero essere efficacemente contenuti sia sul versante penale che su quello amministrativo (come del resto la vicenda di Modena dimostra).
Anche alla luce del fatto che si tratta di un reato “di pericolo”, la fattispecie avrebbe dovuto essere maggiormente precisata, evitando il riferimento al concetto “ordine pubblico”. La pena appare poi sproporzionata, soprattutto nella sua misura massima, con tutte le conseguenze che ciò comporta. La possibilità poi di irrogare misure di prevenzione appare eccentrica. L’impiego di tali misure dovrebbe essere circondato da cautela dato che esse prescindono dall’accertamento di un reato, essendo appunto “preventive”. Si tratta di misure sotto diversi profili censurate sia dalla Corte di Strasburgo che dalla Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2019).
In sede applicativa i giudici avrebbero in fin dei conti il compito, già sul piano del “fatto”, di verificare se un accadimento concreto corrisponda alla fattispecie normativa astratta. I giudici dispongono, come noto, di potenti strumenti interpretativi, tra cui spicca quello dell’interpretazione conforme a Costituzione, salva sempre la possibilità di rimettere la questione alla Corte costituzionale.
Tra le molteplici reazioni che la norma ha suscitato si registra anche la presa di posizione di “Magistratura democratica” contenuta in un comunicato ove si sostiene che la norma entrerebbe “in diretta collisione con l’art. 17 della Costituzione”. Si prefigurano arresti da parte della polizia di gruppi di persone riunite a festeggiare un “lieto evento, facendo un po’ di schiamazzi”. Si paventa un rigurgito di “criminalizzazione della marginalità sociale”. La norma viene rubricata come “pericolosa” e connotata da “margini di equivocità” ponendosi “in drammatica collisione con i nostri diritti e valori fondamentali”. Ci si chiede infine cosa accadrebbe “nel caso in cui la manifestazione fosse organizzata per protestare contro scelte governative…”.
Se le critiche alla norma sono legittime, qualche dubbio si potrebbe avanzare in relazione a prese di posizione da parte della magistratura, o di alcune espressioni associative di essa. Il problema è che i giudici saranno a breve chiamati ad applicare la norma. Si tratta, nel caso, di una diametrale contrapposizione rispetto a una scelta governativa espressa attraverso un decreto legge che deve comunque passare alla conversione delle Camere. Che una parte della magistratura muova una critica così radicale rispetto ad una scelta politica del Governo non pare del tutto in asse con la fisiologia del sistema. Si tratta di un atteggiamento che, oltre a porsi in contrasto con le dinamiche costituzionali, che non contemplano un ruolo politico della magistratura, perpetua un certo modo di essere del rapporto tra politica e magistratura. Si è al riguardo osservato che l’azione della magistratura “ha in certo senso posto la politica intera sul banco degli imputati (e lasciamo qui da parte il bilancio di quei processi, che non sempre hanno confermato le responsabilità oggetto delle indagini), riducendola in una condizione di fisiologica minorità” così Guido Melis, in Questione giustizia, 2022).
Si tratta di uno stato di cose che si auspica sia superato dovendo l’ordinamento tendere verso una evoluzione costruttiva del rapporto tra politica e magistratura: tra chi è chiamato a compiere scelte politiche e chi è chiamato ad applicare ed interpretare le leggi in una posizione di indipendenza e di imparzialità.