Reddito di cittadinanza? No, grazie. Aiutare il lavoro, non creare "fannulloni"
Questa campagna elettorale – il cui livello, spiace scriverlo, segna nuovi record negativi per ciò che concerne la qualità e la fattibilità di molti programmi – è caratterizzata dalla massiccia comparsa di proposte riguardanti redditi di cittadinanza et similia. Tralasciando gli aspetti più tecnici riguardanti le differenze sostanziali tra reddito di cittadinanza, reddito minimo garantito e reddito di inclusione – ben spiegate a questo link – si vuole qui compiere una riflessione sugli aspetti etici e morali sull’improvviso interesse per la politica per questo tipo di misure di sostegno economico.
Appare opportuno compiere una prima distinzione. In linea di principio, non è da scartare aprioristicamente una misura di sostegno al reddito per le fasce meno abbienti – e, in particolare, per i disabili –, circoscritta nel tempo e delimitata da precisi requisiti. Ciò che, però, lascia fortemente perplessi è l’idea, propagandistica e fallace, che lo Stato si trasformi in una sorta di cornucopia: e che ancora una volta, dunque, delle legittime misure di welfare degenerino in un assistenzialismo cronico, i cui cospicui costi o vengono taciuti, o vengono affidati a fantasiose elaborazioni di finanza creativa. In secondo luogo, sembra ormai andata in soffitta la speranza di vedere delle ricette economiche che tengano in debita considerazione le esigenze dei più giovani e il loro futuro: al contrario, la politica è sempre più preoccupata solo della propria sopravvivenza. Occorre domandarsi, pertanto, se queste promesse di denaro sotto forma di redditi di cittadinanza e dintorni siano provvedimenti che vadano davvero a beneficiare i meno abbienti e i più giovani.
Il rischio, molto concreto, è che attraverso tali elargizioni a fondo perduto si finisca solo col creare una classe di fannulloni che non hanno alcun interesse a migliorare la propria posizione sociale, perché già lautamente sussidiati dallo Stato. Luigi Di Maio afferma: «Daremo un sostegno che varia in base al numero di componenti familiari e che è di 780 euro per i single a reddito zero, ma che può arrivare a 1.950 euro per una famiglia senza reddito di 4 persone». Tale proposta rasenta la demenzialità, oltre che ad essere un concentrato di demagogia. Considerato che la cifra proposta, vicina agli 800 euro, corrisponde di fatto al primo stipendio – nei casi migliori – di molti giovani neolaureati, è evidente che in tal modo si crea un forte disincentivo alla ricerca di un’occupazione, provocando altresì una pericolosa distorsione del mercato. Per quale motivo un disoccupato dovrebbe cercare un lavoro, se lo Stato gli consente di sopravvivere con un lauto assegno mensile? Ma soprattutto, non è immorale e allo stesso tempo degradante, che lo Stato di fatto crei una schiera di mantenuti dalla collettività, e senza alcuna prospettiva di mobilità sociale? Anziché investire sui giovani e sul loro futuro – borse di studio, riqualificazione professionale – li si condanna ad un presente di apatia e di immobilismo. Vale la pena ricordare come nel giugno del 2016, in Svizzera, un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato pari a 2500 franchi svizzeri per gli adulti e 625 franchi svizzeri per i minori sia stato sonoramente bocciato con il 76,9% dei voti – e tutti i Cantoni contrari: a dimostrare una distanza abissale di cultura politica e di concezione dello Stato.
Quando si portano tali argomentazioni, si viene solitamente tacciati d’essere affamatori del popolo, privi di sensibilità e incapaci di pensare ai più deboli: accuse che sono il canto del cigno dell’ipocrisia. L’unico, vero modo d’aiutare chi è privo di un sostentamento e le nuove generazioni è uno solo, ed è il più solidale di tutti: creare lavoro, liberando le imprese dalle gabbie della burocrazia e della pressione fiscale. Anziché blaterare di irrealizzabili redditi di cittadinanza, si riporti al centro del dibattito politico l’individuo e la sua dignità, che non si trova di certo in una paghetta statale che puzza di ricatto generazionale.
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta