Referendum Costituzionale il Sì di Corrado Ocone
Sono un uomo di centro, o se preferite di centrodestra per la mia buona dose di conservatorismo, venuta sempre più fuori con gli anni. Vorrei un centrodestra che si battesse con veemenza e rigore contro la politica economica di Renzi, che poco adatta mi sembra a questi tempi e al contesto italiano (debito pubblico, scarsa crescita, ecc.). Puntare invece il cannone di battaglia sulla riforma costituzionale, come fanno Berlusconi e i suoi seguaci, mi sembra sbagliato nel metodo e anche nel merito. Nel metodo, prima di tutto, perché una seria destra liberale e conservatrice deve avere senso dello Stato, il che ovviamente non significa che debba essere statalista (Dio ce ne scampi!). Deve perciò distinguere il momento istituzionale da quello politico, così come una riforma costituzionale dai tatticismi e le ripicche della lotta quotidiana. Se tutto questo non c’è, come in questo caso, e poco importa se la “politicizzazione” sia più colpa di Renzi o dei suoi avversari, ciò non significa che noi si debba seguire la corrente e scendere in campo: più saggio, mi sembra, sparigliare il terreno ove si gioca la partita, soprattutto se quel campo non è adatto alla battaglia quotidiana. Così come nei decenni scorsi ho cercato di giudicare sempre nel merito le proposte politiche di Berlusconi, sottraendomi al facile gioco del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, così faccio anche ora in questo caso. E così credo che sia giusto fare. E vengo al merito delle questioni proposte dal referendum. Non starò a ripete il perché sia giusto provare a superare il bicameralismo paritetico, il federalismo spendaccione e tutto il resto che c’è nel progetto di riforma e che non è molto ai miei occhi ma per l’Italia immobile è già tanto. Mi sembra più giusto collocare, come poco finora si è fatto (e da parte di una sinistra ancora ideologizzata si capisce perché), il progetto ora all’esame in un contesto storico. Si tratta di una lunga storia, in verità. La riforma della Costituzione non parte da oggi, accompagna lo sviluppo stesso dell’Italia repubblicana. Non è dato inessenziale, né secondario. La nostra Costituzione nacque infatti, a metà degli anni Quaranta del secolo scorso, da una doppia esigenza: da una parte, quella di esaltare la rappresentatività del sistema politico piuttosto che la governabilità, donde il ruolo centrale che in essa assunsero i partiti politici e gli interessi fortemente organizzati; dall’altra, quella di trovare un minimo comun denominatore fra le eterogenee forze costituenti. Due esigenze storicamente radicate nel contesto di quegli anni, nei quali, da un lato, pesava ancora l’incubo che del fascismo e del potere forte (o addirittura unico); dall’altro, ci si poteva rifornire come forza unificante unicamente al serbatoio della Resistenza e al valore di un indifferenziato antifascismo che accomunava forze liberali ad altre che tali francamente non erano e né volevano essere. Dal che il carattere compromissorio, anche nel senso altro dell’espressione, che il potere della Repubblica ha sempre avuto e persino cercato, sin da quegli inizi e fino all’esaltazione della cosiddetta “concertazione” fra le forze politiche e sociali. E da qui anche l’irresponsabilità di un potere condiviso e mai responsabilizzante. È in questo contesto che forze intellettuali e politiche minoritarie ma lungimiranti e con le idee ben chiare espressero da subito insofferenza verso quella che definirono non a torto la “partitocrazia”. Mostrando anche, alcune di esse, diffidenza verso l’asimmetria di fatto che la Costituzione certificava fra i due totalitarismi. Essere non comunisti, in Italia, è stato infatti sempre possibile, ma essere anticomunisti ha sempre significato essere etichettati sic et sempliciter come fascisti. I tratti socialisteggianti, o addirittura comunisti, della nostra Costituzione (a cominciare dal primo articolo che esalta il lavoro e non la libertà) sono tanti e evidenti, tali da certificarne ipso facto, agli occhi di molti e anche di chi scrive, la sua profonda inattualità. Anche e soprattutto in quella prima parte che non si ha ancora il coraggio di ritoccare. Craxi ereditò in qualche modo questa tradizione minoritaria di critica alla Costituzione e si fece promotore, negli anni Ottanta, di una “grande riforma” che, archiviato ogni pericolo di un sempre evocato e risorgente fascismo, rendesse più efficace il potere dell’esecutivo e facesse perciò della nostra una democrazia veramente governante e funzionante. Una democrazia, detto altrimenti, in grado di superare quelle incrostazioni corporative e clientelari che si erano andate negli anni sempre più sviluppando e solidificandosi. Il tentativo di Craxi, così come quelli più timidi a lui successivi, fallirono tutti, per i più vari motivi. E tale fallimento coincise con un sempre più evidente declino italiano. Non che fra i due fenomeni possa esserci un nesso causale stretto, diretto, ma certo è che senza un potere forte e responsabile è come se ci fossimo castrati da subito di quella possibilità, che tutti gli altri paesi democratici hanno avuto ed hanno, di mettere in atto strategie più o meno appropriate di contenimento della crisi. Che gli sforzi riformisti di tutti questi anni, che hanno visto come protagonista anche (ma non solo) la destra berlusconiana, abbiano alla fine sortito così poco effetti la dice lunga sulla forza dei poteri costituiti e per ciò stesso conservatori della nostra Costituzione formale e materiale. Ma molto dice anche il fatto che l’esito ultimo di questa battaglia, quasi l’ultimo appiglio di speranza a cui aggrapparci, riposi ora in questa riforma dopo tutto molto pallida e molto insufficiente rispetto a quegli obiettivi di massima che pure sarebbe stato giusto proporsi. Ma tant’è! Bisogna essere realisti e bisogna ammettere che comunque sia questa riforma, per quanto insufficiente e forse in certi aspetti anche pasticciata e contraddittoria possa essere, comunque vuole rispondere a quella esigenza di governabilità, efficacia e responsabilità che le forze riformiste hanno da sempre posto sul tavolo. In una parola, seppur in modo arrancato, essa si muove proprio in quella direzione di marcia che in tanti avevamo agognato, che avevamo anche provato a intraprendere e che a un certo punto ormai avevamo disperato di poter realizzare. Suona perciò davvero strano il repertorio strumentale con cui centrodestra fa ora una scelta che contraddice la sua storia e identità nella sua parte migliore. Vedendola costretta, fra l’altro, a farsi compagni di strada certe già tante criticate “vestali” della vecchia Costituzione, nonché a parlare come loro di “attacco alla democrazia” o “deriva autoritaria”. Scelta di corto respiro e politica di bassa lega, questa. E che allontana ancora una volta quell’obiettivo di una destra affidabile e responsabile che pure sarebbe per il nostro paese tanto auspicabile.
*Corrado Ocone, Liberi Sì