L’illusionismo di Renzi e Boeri sulle pensioni
Nel 1903 Amilcare Puviani scriveva la “Teoria dell’illusione finanziaria”, analizzando i trucchi con cui i governi creano nei cittadini una falsa idea della quantità di tasse pagate – o della buona virtù del loro impiego – per accrescere il proprio ruolo nelle cose.
Oggi il governo illusionista è quello di Matteo Renzi, che desidera rimpinguare l’agibilità politica per una nuova campagna di spesa elettorale, senza alzare visibilmente le tasse, ma facendo tagliare ad altri, per un buon pretesto difendibile, le pensioni agli anziani.
La buona causa saremmo noi giovani destinati a non avere mai la pensione; l’esecutore tecnico sarebbe il Presidente dell’INPS Tito Boeri, illustre esperto; la proposta sarebbe quella, dirigista, di ridurre la quota di spesa pubblica impiegata a favore dei vecchietti retributivi con buone pensioni, ridestinandola a nuovi impieghi, scelti per favorire – meglio di loro – i loro figli e nipoti contributivi.
Il tutto, per non essere un fatto politico, dovrebbe essere presentato come un “ricalcolo”. Un rifare i conti meglio. Insomma: ti taglio il reddito familiare ma non è niente di personale... Soprattutto non è una tassa. Perchè le tasse, con Renzi, scendono.
Se consideriamo che la traslazione fiscale c’è anche nelle tasse negative, e che molti pensionati pagano il mutuo per la casa dei figli, ci sovviene l’immagine della pecora tosata per farle un maglione scomodo.
L’intento di ritagliare una cresta dalla riforma dei trasferimenti pensionistici alle famiglie, prima di restituire il restante del risparmiato in sussidi e garanzie ai giovani, emerge evidente, come che le pensioni equitativamente ricalcolate sono solo lo specchietto per le allodole.
Questo è il cuore dell’illusione, mentre l’utilizzo spregiudicato dei media e dei ruoli istituzionali ne costituisce il metodo. Ad iniziare dalla nomina di Tito Boeri ad opera di Renzi, per proseguire con la licenza data al Presidente dell’INPS di dichiarare come se fosse un politico, dalla mattina alla sera, cosa si dovrebbe fare.
Davvero, se tornasse nell’Italia di oggi, l’antico economista inorridirebbe, a sentire ciò che l’attuale Governo ha messo in piedi. Si vede infatti che l’Europa, i partiti centristi, settori estesi del Partito Democratico e persino alcuni della destra, ammaestrati dagli editorialisti di Corriere e Sole24Ore, fanno tutti a gara per insistere quotidianamente che il Governo proceda.
Ma nel frattempo – capolavoro d’arte – c’é il Governo che fa sapere con tono compunto di non considerare affatto l’ipotesi, e addirittura si dissocia dall’INPS, che però mai riforma e mai richiama più che con atti formali (quando potrebbe commissariarlo se non ne condividesse davvero la linea).
Proprio il gioco delle parti tra INPS e Governo dimostra la natura politica della manovra: creare un consenso per presentare il taglio come tecnico e non politico. Ciò che sorprende è che a questo giochetto si prestino tanti, troppi, intellettuali, fra i quali il Prof. Boeri, già attivo esponente del gruppo di economisti di sinistra che ruotava intorno al giornale LaVoce.
Il sospetto è che l’idea del furbo primo ministro sia di far pagare all’INPS il costo mediatico di una riforma pensata per impoverire l’economia privata, rastrellando ulteriori denari, che andrebbero a un Governo discolpatosi in anticipo per anni, con i continui “no no” dati all’ente stesso, magari dopo l’uscita, in polemica dello stesso Boeri (a gioco di prestigio quasi concluso).
Per la natura del sistema, come vedremo, l’INPS é solo un grosso passacarte. Ma per lo scopo politico deve sembrare almeno il dominus del processo o le responsabilità saranno addossate a Renzi e al PD – e non all’Europa, ai mercati, ai tecnici.
Il gioco va quindi avanti con continui proclami infuocati del Presidente dell’INPS- addirittura rivendicati dicendo: “è giusto allarmare i giovani” – che vengono ritrasmessi a giornali e televisione unificati, di mese in mese, per la gioia di quel gruppo di potere Democratico che controlla giornali e RAI, ad usum principis, costruendo plasticamente la narrativa della grande riforma giusta proposta da un ente rinnovato ed efficiente, presieduto da un tecnico.
Ogni illusione ha però una parte di verità.
In Italia, ovviamente, un problema pensionistico esiste. Ma questo problema c’è da quarant’anni e non da due ed è stato oggetto di mille interventi. L’attivismo del Presidente dell’INPS sulla tragedia pensionistica dei giovani è dunque sospetto, perchè prevede toni da esercito per le strade, che non si sono visti, per esempio, nè nel 1992 nè nel 2011.
Inoltre, intorno alla reale natura del problema, ciò che non si vede chiaro è ancora troppo, e molto diverso da ciò che espone ormai quotidianamente il Prof. Boeri.
Da due anni viene insistentemente riaffermato quanto è già perfettamente noto dai primi anni novanta: che il peggioramento della tendenza di crescita dell’economia italiana (verso la stagnazione decennale) unito con il non miglioramento della tendenza di decrescita della popolazione attiva (demografia negativa ed invecchiamento) renderebbero in prospettiva non sostenibile per l’INPS il criterio di ripartizione pensionistica attualmente in essere, che si compone di una coda di vecchi trattamenti retributivi, risalenti al periodo 1969-‘95, dei successivi misti, e di un nascente flusso di trattamenti contributivi post ‘95.
L’insostenibilitá sussiste a meno che non si preveda di garantire ai giovani pensioni molto basse in caso di discontinuità contributiva futura (cioè, in pratica, che non si cerchi deliberatamente di impedirgli un pensionamento prima dei 75 anni). Il che è infatti quel che hanno stabilito normativamente le ultime riforme, a salvaguardia del sistema.
Sulla base di questo, per allentare un domani il vincolo imposto ai giovani, vengono proposte due soluzioni, tra loro alternative, come se fossero le sole possibili:
- da una parte, la proposta, dal lato della spesa, di ricalcolare i “vecchi trattamenti retributivi alti” come se fossero attuali trattamenti contributivi onde ripianare il bilancio tagliando in modo significativo queste pensioni, sia con un nuovo blocco dell’indicizzazione che con tagli diretti, per ridurre nel lungo termine il loro ammontare, in aumento tendenziale;
- dall’altra parte, l’idea, dal lato delle entrate, di tassare sistematicamente in futuro le pensioni più alte per avere maggiori incassi (dove “alto” sarebbe > 3000 € a 65 anni), così da “garantire ai nuovi contributivi la sostenibilità salvando il sistema per tutti” a spese solo “dei più ricchi” che per di più “non hanno contribuito abbastanza in passato”.
Il progetto di riforma, secondo l’uno o l’altro modulo oppure, più probabilmente, una combinazione dei due, dovrebbe svolgersi, nel piano sostanziale di Renzi e Boeri, attraverso una preventiva opera di propaganda nei confronti dei giovani ed una successiva misura governativa di “riequilibrio” diretta agli anziani percettori, a quel punto disarmati nel dibattito pubblico dall’argomento del padre che “toglie il futuro al figlio” (Il famoso futuro, ritolto al padre, verrebbe poi conservato dal Governo, in attesa di ridarlo al figlio…).
Due ragionamenti economici sorreggono entrambe le proposte: il primo poggia sulle risorse finanziarie “troppo alte” che sarebbero impegnate dallo Stato nelle pensioni, ed il secondo sull’attuale metodo per reperire le risorse del sistema, che apparirebbe ingiusto verso i giovani e che sarebbe da correggersi “secondo equità”, prevedendo, appunto quanto descritto.
Entrambi gli argomenti vengono sostenuti con il riferimento alla spesa pensionistica lorda sul PIL, che per l’Italia sarebbe la prima d’Europa, ed alla misura legale della contribuzione, che sarebbe più alta del 12% che su quelli del passato, a fronte di una promessa di trattamenti pensionistici identici (80% del reddito) solo in caso di continuità di versamenti, e molto più bassi in caso di discontinuità (che è la principale differenza tra sistema contributivo e retributivo). Entrambi i dati sono veri; entrambi i dati sono parziali e illusori.
Vero è che la spesa pensionistica lorda è la più alta d’Europa, ma non è così per la spesa netta. In Italia, infatti, diversamente da molti paesi, le pensioni sono redditi soggetti alla tassazione diretta sulle persone fisiche e le tasse sulle pensioni in Italia sono così tra le più alte d’Europa. La comparazione corretta [1] – ma parziale perché al netto delle sole tasse dirette – vede l’Italia terza per spesa, dopo la la Francia e il Portogallo. La comparazione complessiva reale, considerando che siamo tra i primi anche per tasse indirette, non sembra pubblicata da alcun istituto di statistica, ma resta immaginabile.
Il dramma dell’INPS insostenibile, allo stato attuale e nel momento presente, è quindi finto perché con buona parte delle pensioni erogate in realtà l’istituto pensionistico finanzia indirettamente il Governo, attraverso una partita di giro, e la pensione netta erogata è quindi molto più bassa.
Quanto alla contribuzione versata per avere tale pensione netta: è vero che il contributo flat oggi richiesto ai lavoratori (sistema contributivo) ha un’aliquota del 32%, a fronte del 20% che veniva richiesto nel 1973, per mantenere un tasso di sostituzione tra reddito e pensione dell’80%, ma è vero anche che la contribuzione non è mai stata l’unica fonte di finanziamento dell’INPS né mai lo potrà essere, costituendo assunzione implicita dell’intera struttura che lo Stato garantisca per il pagamento delle pensioni. E non si tratta di teoria!
Di fatto lo Stato italiano ha sostenuto i conti dell’INPS per decenni [2] e ancora li sostiene, e li sosterrà, con soldi derivanti dalla fiscalità generale. Tale fiscalità, essendo progressiva, fisiologicamente è gravata e grava sui giovani in misura nettamente minore che sugli anziani, che hanno redditi più alti. Inoltre, in generale, dal 1973 ad oggi, la fiscalità è salita per tutti, anche per i pensionati, di oltre il 10% e più che proporzionalmente sui redditi elevati (tra i quali gli alti retributivi). In tal modo, la distanza reale generazionale tra chi paga oggi più contributi per avere la stessa pensione domani, e chi paga più tasse del previsto oggi sulla pensione maturata ieri, è molto piccola, e si annulla completamente per i redditi alti.
Si intreccia con questo problema, sulla misura reale della contribuzione, il tema della sbandierata equità finale di un ricalcolo dei vecchi trattamenti retributivi più elevati a favore dei moderni trattamenti contributivi bassi. Quest’ultimo argomento è stato addirittura costruito per intero su di un presupposto falso: tutti i retributivi avrebbero pagato meno contributi dei contributivi. Si parla così di “pressanti ragioni equitative per una riforma” a scapito, per scelta politica, degli alti retributivi.
Ma abbiamo visto che se lo Stato finanzia l’INPS da decenni i due bilanci sono solo fittiziamente separati. Riportiamo quindi nel dibattito un dato negletto: la contribuzione ad aliquota flat nel sistema retributivo non è mai stata uguale per alti e bassi redditi salvo che per 4 anni tra il 1969 e il 1973, dopo l’introduzione del nuovo sistema retributivo (in sostituzione del precedente contributivo). La tassazione sulle persone fisiche infatti, fin dal 1973, è stata agganciata al reddito in termini di progressività, implicando così necessariamente che – per essere oggi un alto retributivo – essendo la pensione parametrata all’ultimo stipendio, il pensionato oltre ad aver versato il contributo uguale per tutti, deve essere stato, almeno dal ‘73, anche un contribuente fiscale ad alta progressività (in ragione, appunto, dell’elevatezza del proprio reddito).
L’attuale alto retributivo, dunque, riesaminati correttamente i rapporti tra INPS e Stato, doveva essere stato un contributore pensionistico rafforzato. Tale più-che-contribuzione è stata in parte attuale, e in parte prospettica – perché ha consentito di non emettere ancora maggiore debito pubblico negli anni 70’, ‘80 e ‘90 conservando così la capacità di emetterne ancora in futuro (anche a coprire le pensioni, e qui è la contribuzione prospettica). L’agibilità futura del sistema della finanza pubblica, e della connessa garanzia delle pensioni, se non del tutto formalmente, si è comunque fondata sostanzialmente sul contributo implicito della fiscalità garantita dagli alti stipendiati di quegli anni, e ancora vi poggia (perché se avessimo emesso debito corrispondente all’epoca, saremmo già falliti oggi, e invece non lo siamo).
Pertanto, una volta assunto, correttamente, che la contribuzione reale all’INPS sia transitata per parte sostanziale dal bilancio statale e dal fisco, si può dimostrare anche che, se la contribuzione complessiva dal 1973 non è stata solo flat e non è dunque semplicemente salita del 10% sui nuovi lavoratori rispetto ai vecchi perché fin da epoca molto lontana il sistema aveva una componente di progressività sui ricchi molto marcata, allora non è vero che sussista un problema di equità sugli alti retributivi, il cui contributo sostanziale e non formale, data la progressività (e molto più marcata, fino al 72%!) era davvero molto più alto.
Nel dettaglio le aliquote del Dpr. n. 597/1973, istitutivo dell’IRPEF erano in tutto 32 (dal 10% fino al 72%) per altrettanti scaglioni di reddito che andavano circa da € 1.000 a € 310.000. Così, prendendo il caso di Tizio, operaio, percettore di € 20.000 annui, titolato a ricevere una pensione retributiva di € 1.200 al mese: si può notare che nel 1973 oltre al 20%, su quel reddito, egli aveva contribuito al fisco fino a uno scaglione massimo che era del 44%. Prendendo ora il caso diverso di Caio, manager, percettore di € 260.000 annui, titolato a ricevere una pensione retributiva di € 19.000 al mese: si può notare invece che nel 1973, oltre al 20% su quel reddito, egli aveva contribuito al fisco fino a uno scaglione massimo che era del 72%.
La differenza è rilevante: decine di punti percentuali, che, moltiplicati per diversi anni di reddito elevato, hanno potuto formare un monte di contribuzione invisibile davvero ragguardevole a favore dell’alto retributivo, rispetto a quello versato dal basso retributivo. A nulla vale notare che la dinamica degli stipendi non consente di proiettare all’indietro il livello dell’ultimo: perché questo vale esattamente anche per il basso contributore retributivo, ed è dunque neutrale rispetto alla scelta di quali trattamenti retributivi falcidiare, che costituisce proprio il principale contenuto politico di sinistra della proposta di riforma.
Al contrario, se il conto dimostra un “problema di equità”, secondo la narrativa di Boeri e compagni, questo si pone solo per i bassi retributivi. Se volessimo seguire l’equità, infatti, dovrebbero essere i pensionati medio-bassi a pagare la “Riforma” tramite ricalcolo: quelli che davvero hanno pagato meno contributi di quanto paghino gli odierni giovani, e che però hanno avuto una pensione molto più alta di quella che, con gli stessi contributi, sarebbe possibile garantire un domani ai giovani che pagano l’aliquota oggi. Ha senso politicamente? È accettabile socialmente? Certamente no. Ma non è meno vero che l’opposto costituirebbe una spoliazione, pura e semplice, di quella che è stata la borghesia produttiva negli anni in cui l’Italia aveva una reale crescita economica.
La riforma della sinistra -comunque ne venisse impiegato il getttito- sarebbe solo una punizione per chi più ebbe responsabilità nella crescita di quegli anni: i dirigenti responsabili delle decisioni produttive strategiche, altamente retribuiti. Essa inoltre costituirebbe una grazia ingiustificata per chi di quella crescita ebbe meno responsabilità ma comunque ha avuto beneficio in termini di crescenti redditi: gli operai ed impiegati, che attuavano tali indirizzi produttivi, e che oggi percepiscono pensioni sproporzionate alla realtà della loro contribuzione, perché si fondavano su un sistema normativo che incorporava in sé una previsione di crescita economica costante poi non mantenutasi.
Ricostruito così il sistema pensionistico generale, quale proiezione di una dinamica salariale, a sua volta derivata da una dinamica di crescita, non disaccoppiata dal bilancio fiscale e dalla capacità di emettere debito pubblico, emerge quale sia il vero problema che la riforma – a carattere esclusivamente predatorio – propugnata da Boeri non può risolvere per noi giovani odierni: il fatto che le stime di crescita alla base del modello di sostenibilità del sistema contributivo post-Fornero, rappresentate non solo dal PIL, ma dalla continuità e corposità dei versamenti dei lavoratori, candidati ad essere percettori di trattamenti pensionistici, sono comunque ottimistiche rispetto al quadro reale dell’economia italiana. In particolare, tali stime incorporano una previsione sostanziale implicita di crescita annua e quasi piena occupazione, che non è stata vera negli ultimi 10 anni in Italia, e che nessuno può garantire lo sarà in futuro.
A tale incertezza corrisponde, d’altra parte, un caso negativo certo: quello che se tale crescita non si verificasse, e si sbilanciasse il sistema fiscale, lo Stato, riforma pro-giovani fatta oggi o meno, cercherebbe immancabilmente i soldi dai futuri pensionati, proprio come ha fatto negli ultimi 20 anni con i vecchi, eliminando ogni principio di certezza ed affidamento sulle promesse pensionistiche, con nuove riforme, magari, per quell’epoca, dettate per davvero da nuove necessità.
Ecco dunque spiegato – non per quel che dice Boeri oggi, ma per quel che capiamo da soli – dove sta il problema vero dei “giovani che non avranno una pensione”: il problema è nel diritto dello Stato di rinegoziare i patti pensionistici, premessa maggiore, e nella possibile necessità di farlo per l’epoca in cui le pensioni da discutere saranno le nostre, premessa minore. L’ordine delle due premesse è l’unico logico, se si riflette che è proprio il diritto di pentirsi delle promesse ciò che induce il promittente a non organizzarsi in anticipo per mantenerle, e che ha creato la situazione pericolosa affrontata oggi da noi giovani.
Il problema di sostenibilità descritto, come è chiaro, non riguarda la struttura dei pagamenti del sistema, ma la modalità incerta del suo finanziamento: un finanziamento pay-as-you-go, fondato sull’incrocio di un flusso in ingresso dai lavoratori e un flusso di spesa a favore dei pensionati, che funziona solo se la previsione del futuro è corretta, e che nessuno nelle alte sfere politiche ha ancora voluto cambiare verso un sistema che contribuisca ad assicurare da sé la sostenibilità delle previsioni future: generando rendimenti cumulati e reinvestiti in casseforti reali, e non più flussi di trasferimenti.
Qui occorre un passo indietro. Nell’assenza di educazione economica nelle scuole pubbliche, è stato lasciato pensare per decenni agli italiani (e forse ancora alcuni lo credono) che il sistema pensionistico – fin dall’introduzione della contribuzione obbligatoria nel 1919 – fosse sempre rimasto a gestione economica, come un fondo comune obbligatorio dal quale i denari lasciati dai lavoratori venissero investiti, per fruttare un rendimento all’INPS, che un giorno avrebbe costituito la loro pensione.
Ma ciò non è più vero dal 1952. Dal dopoguerra, l’INPS è sempre stato unicamente un ufficio pubblico di trasferimento di carta che, percependo un flusso obbligato di contributi – generati come aliquota su un imponibile e non diversi in alcun modo dalle tasse – li ripartiva su base mensile nella forma di prestazioni ai titolati. Senza mai prestar denaro a privati per accumulare interessi, senza mai comprare case e affittarle, o finanziare imprese e riceverne dividendi. Senza, dunque mantenere, mai più, una “gestione economica”.
Negli anni, questo sistema, per sua natura detto a “ripartizione” (verso l’altro precedente, a “capitalizzazione”) è stato regolato in due modi differenti. Dapprima si facevano coincidere i flussi di contributi e prestazioni con un criterio contributivo (una % astratta della media degli stipendi come ricostruita dai contributi versati, opportunamente pesati), poi, nel 1969 si passò a un criterio retributivo. L’illusione è consistita nel rappresentare agli italiani che retributivo e contributivo fossero “sistemi”, quando erano solo “criteri”.
Si trattava solo di arbitrarie decisioni pubbliche, frutto di una diversa previsione sulla crescita demografica ed economica, che nel lungo termine avrebbe mantenuto una coincidenza dei flussi – col secondo criterio – e avrebbe invece provocato una insufficienza di flussi – con il primo. Ma il sistema restava il medesimo: una spesa annuale in favore dei pensionati mantenuta dalla ricchezza sequestrabile anno per anno ai produttori in condizione di sostenibilità fiscale. Proprio su questo si fonda l’esigenza metodologica di non distinguere, parlando di pensioni, tra contributi e tasse. Al contrario di ciò che fa l’INPS.
Anche in passato, l’illusione pensionistica ha creato problemi. Già dai primi tempi dopo l’introduzione del sistema, e per alcuni decenni, molti dirigenti politici hanno saputo che il criterio retributivo non avrebbe funzionato per sempre, ma solo nel 1992, per esigenze fiscali dovute a una momentanea sospensione della possibilità di emettere debito pubblico in condizioni di sicurezza, si è decisa una riforma pensionistica, con il ritorno, dal 1995 secondo una progressione di lungo termine, al criterio contributivo. Il prezzo del ritardo è stata la serenità di generazioni di anziani.
Le ulteriori riforme, fino alla Fornero, hanno solo variato la velocità di questa transizione, secondo esigenze di cassa, colpendo i giovani nella misura in cui in futuro sarebbe mancata la crescita, che è la stessa cosa che vorrebbe fare oggi Boeri: ridurre i trattamenti anzichè aumentarne il finanziamento. Il problema può dunque ripetersi ancora altre volte, sempre, finché il sistema delle pensioni dipende dall’economia del domani, e questa manca.
Torniamo ora ai tempi moderni: il nostro problema come giovani è nella volatilità dei rapporti, nella crescita asfittica dell’offerta di posti di lavoro nel nostro paese, nella lunga prima disoccupazione post-universitaria, nelle prospettive di disoccupazione temporanea successive, e nel pericolo di mettersi in proprio e cambiare lavoro in tale clima. Ed esso deriva dalla pretesa – questa sì, dei seniores della sinistra politica – di imporci un modello fuori dal tempo della gestione pensionistica, fondato sul posto fisso per tutti, che con tali fondamentali di vita ci garantisce solo pensioni basse e insicure, tarato a bella posta per sembrare sostenibile oggi (in Europa) negandoci una pensione domani.
È contro l’agganciamento dei destini individuali dei pensionati futuri alla performance generale dell’economia che dovremmo batterci, perché questo costituisce il problema da risolvere per restituire pienamente a ognuno la possibilità di restare artefice del proprio destino anche nella terza età, dopo gli anni del lavoro e del risparmio, e non finire in balia delle tempeste politiche. È parimenti questa interdipendenza quella che appiattisce ogni possibilità di scampo per i giovani dal sistema che sia diversa dal cambio di paese.
Per riprendere libertà di scelta sul nostro destino servirebbe dunque una diversa struttura di finanziamento del sistema pensionistico, che lo ponga in sicurezza, ancorandolo o a un obbligo di attivarsi del potere pubblico o alla possibilità individuale di tutelarsi in proprio.
Per garantire noi giovani di qualcosa che avverrà tra cinquanta anni, due opzioni, totalmente diverse dalle proposte della premiata ditta Renzi – Boeri, sono ben possibili, ma oscurate dal dibattito:
- La via centralista: la decisione politica di tipo costituzionale di tutelare l’onore dello Stato, con il contenimento di tutte le altre spese per difendere la previdenza: uno Stato, dal 2017, più piccolo del 10% del PIL (certo non è facile, ma qualsiasi azienda lo fa anche del -30% in un anno, quindi si può e chi nega sia possibile non si raffigura evidentemente quanto sia variata in fretta la dimensione dello Stato nei decenni passati) che ben potrebbe mantenere l’INPS anche se retributivo nei prossimi cinquanta anni, potendo riaccrescersi se occorresse anche in caso di crisi. Si può, dunque, scegliere di continuare, ma per farlo lo stato deve recuperare margini di imposte elevabili in futuro, con una riduzione strategica del fisco oggi, una politica di crescita, e soprattutto di crescita demografica.
- La via concorrenziale: l’opt-out su destinazione volontaria dei contributi obbligatori, dal passacarte pubblico INPS verso fondi privati in grado di investirli. La proposta è quella per un deciso cambio di rotta verso il sistema Cileno a capitalizzazione individuale, concepito dall’economista José Pinera e in forte diffusione [3] nel mondo. La prospettiva di una pensione futura con esso potrà basarsi ex novo su un flusso di denaro da conti individuali verso l’economia reale, destinato a rientrare arricchito di interessi in quei conti e successivamente a venire utilizzato per il pagamento della pensione per il lavoratore. La garanzia collettiva dello Stato resterebbe nel prevedere un obbligo di condivisione del rischio finanziario di questi conti in fondi pensione privati, concorrenti tra loro, di una certa dimensione minima e massima (nessuno dei quali too big too fail), regolati in modo chiaro, e ospitati su un mercato moderno, possibilmente di dimensioni internazionali. Se si partisse subito, sarebbe già il differenziale di rendimento a finanziare la coda rappresentata dai trattamenti retributivi insieme con la fiscalità generale, o con una contribuzione residuale del 10% sui giovani, che a quel punto sarebbe il prezzo per la certezza dell’impossibilità di avere mai a che fare, un bel giorno, dopo decenni, con una riforma pensionistica sanguinosa (come è capitato con la Fornero).
Il punto comune dei due schemi alternativi ai piani di Renzi e Boeri è nel valore rappresentato dalla certezza del diritto.
E’ presupposto implicito del primo schema che sia introdotta una tutela di rango costituzionale dei trattamenti pensionistici, ad esempio con una clausola aggiuntiva al comma 2 dell’articolo 38 della Costituzione: “L’ammontare dei trattamenti previdenziali pubblici assicurati ai lavoratori, sulla base del versamento di contributi durante la loro via lavorativa, non potrà essere oggetto di revisione se non per parte relativa alla quota non ancora versata di contributi e salvo il loro consenso.”, tale da forzare il Governo ad attuare su base stabile una politica che tuteli le pensioni – e non a tutelare mai più le sue politiche tramite le pensioni.
Nel secondo schema, la tutela degli obblighi dei fondi privati è già prevista dalla Costituzione e dal Codice Civile, la cui difesa della validità delle obbligazioni in generale è molto più intensa di quanto oggi accada per le obbligazioni pensionistiche pubbliche, ed escluderebbe qualsiasi revisione unilaterale da parte del fondo. Una modifica costituzionale non sarebbe pertanto necessaria, salvo forse che per l’ipotesi della nazionalizzazione successiva dei fondi. In tal caso, comunque, alla nazionalizzazione non seguirebbe il diritto di rivedere i patti pensionistici, perchè l’obbligazione resterebbe di natura contrattuale e non previdenziale. La possibilità di nazionalizzazione resterebbe, anzi, una via secondaria di salvataggio in caso di fallimenti (dove la primaria sono le società di assicurazioni e riassicurazioni), e un forte disincentivo ad attacchi speculativi sui fondi.
La differenza fondamentale con le proposte di Renzi e Boeri sta nel carattere della realtà. Nessuna delle due proposte alternative potrebbe essere infatti utilizzata per fare cassa, perchè tutte e due presuppongono un po’ di economia del bilancio (la prima molto di più), e tutte e due implicano che il Governo ammetta di avere, fino ad oggi, insieme con i predecessori, sbagliato tutto nel suo rapporto con i padri e con i figli. Un rapporto menzognero che é stato costellato lungo novant’anni di previdenza sociale da promesse smargiasse, indecenti silenzi e vergognosi ripensamenti
*Giovanni Basini, collaboratore Charta minuta
Omaggio ad Amilcare Puviani
Note e riferimenti:
[1] The Ageing Report 2015, Economic and budgetary projections for the 28 EU Member States (2013-2060), European Commission, p. 82;
[2] I conti dell’INPS tra realtà e propaganda, G. Cazzola, Bollettino ADAPT 15/11/2013;
[3] International Center for Pension Reform.