Musei: il bello c’è ma non si vede abbastanza
Di retorica non si compete verrebbe da dire… l’Italia è certamente un museo a cielo aperto ricco di peculiarità più uniche che rare e tutta la penisola offre siti e collezioni d’eccellenza, ma c’è qualcosa che non funziona se ci sono Paesi i cui musei hanno più successo di noi in termini di ricezione, pur avendo meno ricchezze artistiche di noi. Ciò non è molto comprensibile e tanto meno giustificabile.
Soltanto il MoMa di New York (che tra le opere in collezione ha anche una Fiat 500 prima serie) incassa la stessa cifra che a fatica fatturano tutti i musei statali italiani messi insieme. Questo avviene perché in Italia non si è capito ciò che nel resto del mondo occidentale si è ben compreso ed attuato: un’evoluzione nel modo di concepire il museo. È rilevante comprendere che il grado di attrazione di uno spazio museale non è dato soltanto dalla bellezza delle ricchezze artistiche in possesso, ma anche dalla quantità di colloquialità che può mettere in atto con le persone. L’arte è per sua natura aperta e socievole e dunque non risulta un sacrilegio, per i musei degli altri Paesi, farla convivere con altri mondi come quello della moda, del design, del food; essendo capaci di affittare sale e far gestire spazi a privati. Anzi, ciò è risultato un ottimo modo per avvicinare anche i meno avvezzi alle case dell’arte e soprattutto ha generato un secondo flusso di cassa – ed un sensibile incremento del flusso di cassa delle mostre – che ha consentito di implementare le collezioni delle opere ed il mantenimento di solidità economica degli enti di gestione che, spesse volte, sono dei macigni sui bilanci pubblici. Il food sembra il settore che si accompagna meglio con l’arte: nel mondo sono tantissimi i musei nei quali si entra per degustare il menù di uno chef e successivamente per visitare la collezione delle opere, con una vocazione addirittura pari tra i due motivi. Da noi vengono percepiti come eccezionalità le rarissime proposte gastronomiche che si contano largamente sulle dita di una mano. In Francia l’ente che gestisce la Reggia di Versailles ha deciso di cedere la gestione di un’ala inutilizzata, per un albergo a cinque stelle ed un ristorante gourmet, mentre la nostra Reggia di Caserta degrada tra abusi ed atti di vandalismo con un numero annuo di visitatori che in confronto all’oltralpe è imbarazzante ed è irritante se si pensa che alcuni addetti ai lavori giudicano il palazzo di Caserta spiritualmente e fisicamente superiore rispetto al concorrente francese.
È dunque vero che di Cultura non si mangia se è assente la volontà di affermare il contrario. E solo attraverso una modernizzazione del pensiero della gestione dei beni culturali si può sovvertire l’attuale tendenza e recuperare terreno, andando incontro anche ai milioni di turisti di tutto il mondo che quando si spostano creano indotto intorno alla Cultura, un importante indotto che porta iniezioni di ricchezza sull’economica reale. Ma è chiaro che per incentivare anche gli stessi italiani, a visitare le case dell’arte, occorre che coloro che gestiscono i musei e i siti prendano atto di doversi porre al passo con i tempi e con la competizione che oggi porta il cittadino di Roma o Firenze ad andare meno al museo rispetto al cittadino di Parigi o Vienna… e che porta il turista che vuole optare per delle “vacanze intelligenti”, da Osaka, da Stoccolma o da Ancona, ad andare a Parigi invece che a Roma ed a Vienna invece che a Firenze. Per resistere alla crisi economica che inevitabilmente porta uno Stato a tagliare i fondi alla Cultura e per essere competitivi a livello degli altri luoghi del mondo occidentale, è il momento che i musei italiani facciano il passo necessario alla forma del terzo millennio. E la forma è la cifra per cui il made in Italy si è sempre distinto, perché la sostanza non sempre basta.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta