Sfatare la profezia della decadenza
Questo saggio della nostra redazione, è stato pubblicato nell’introduzione al Rapporto sull’Interesse Nazionale “Italia 20.20″ della Fondazione Farefuturo.
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L’epidemia causata da un virus sconosciuto proveniente dalla Cina ha colpito la società e l’economia italiana in modo improvviso, imprevisto, con dimensioni catastrofiche e in modo più grave rispetto ad altri paesi europei. Le misure di contenimento adottate dalle autorità italiane sono senza precedenti, hanno comportato la segregazione di quasi l’intera popolazione per un lungo periodo, oltre otto settimane, e il fermo amministrativo del 60% delle attività produttive e dell’intero sistema distributivo ad eccezione dei generi essenziali. L’intensità di questa azione di contenimento è stata superiore a quella degli altri Paesi. Non sappiamo in che ambito si potrà muovere la dimensione del dibattito e della decisione pubblica. Non c’è dubbio che l’Italia abbia rischiato, nella prima fase della catastrofe epidemica, anche una crisi finanziaria, evitata con difficoltà e non senza tentennamenti dall’intervento della Banca Centrale Europea. Ci muoviamo dunque in un terreno privo di precedenti storici, in quello che in un libro famoso l’epistemologo libanese Nassim Nicholas Taleb ha definito il «ciglio nero». I centri di ricerca economica prevedono per il 2020 un crollo del Pil per l’Italia superiore a quello del 1943, e un debito pubblico che supererà quello generato dallo sforzo bellico nel periodo 1915-1918. Le riflessioni che sono qui raccolte precedono l’inizio della epidemia in Italia, ma restano un orizzonte di riflessione valido, perché non sarà possibile uscire dal precipizio nel quale l’Italia, insieme agli altri paesi europei, è precipitata, senza saper ridefinire un impianto concettuale nitido e condiviso, nelle sue linee essenziali dell’interesse nazionale. La stessa sentenza, celebre non appena annunciata, della Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe pone come un macigno la primazia del diritto nazionale tedesco sul diritto dell’Unione, in una modalità asimmetrica che creerà ulteriori tensioni, ma ci costringe con un impegno ancora maggiore a riflettere sulle linee strategiche per il rilancio della comunità nazionale che, come a tutti è evidente, giungeva al tragico momento della crisi catastrofica di origine sanitaria in condizioni di grande sofferenza, sociale, economica e morale.
La grande recessione del 2008-2015 aveva infatti lasciato nel nostro Paese ferite profonde, alle quali si sommeranno le ferite della presente crisi. Ma la ferita più grave è la sfiducia che ha generato, la rassegnazione al declino. Paradossalmente, la disciplina mostrata dal popolo italiano durante la segregazione per il virus potrebbe essere un punto di partenza per ritrovare slancio e determinazione.
Una strategia per l’Italia può forse essere costruita solo con l’aggregazione di energie, pensieri, volontà unite nel perseguimento di un obiettivo, l’Interesse Nazionale. Se le persone, le istituzioni, se tutti i cittadini avessero presente nel loro agire l’Interesse Nazionale, ecco che forse si potrebbe costruire un’agenda che ci riporti sul cammino della crescita economica, del benessere della nostra comunità, della voglia di costruire.
La grande recessione 2008-2015 ha distrutto il 25% della capacità produttiva del Paese, ha ridotto il Pil del 10%, ha abbassato il reddito pro capite al di sotto della media europea, ha interdetto un futuro a milioni di giovani che non sono riusciti a collocarsi nel mercato del lavoro, ha raddoppiato la povertà, ha compresso i redditi di tutti, ha avviato una fuga verso l’estero con la Nuova Emigrazione italiana (giovani e laureati, dal Sud e dal Nord), ha aumentato in modo drammatico il divario di reddito, benessere, investimenti, perfino di spesa pubblica tra Mezzogiorno e Centro Nord; ha demotivato i giovani, ne ha allontanati troppi da studio e formazione; ha ridotto le immatricolazioni all’Università; ha frenato la lettura di libri e giornali; ha ostacolato l’impiego efficiente del digitale. L’Italia era giunta alla crisi del 2008 già in grande affanno, affetta da una sindrome di bassa crescita; in piena deindustrializzazione, dopo il decennio delle privatizzazioni selvagge, della spoliazione da parte delle grandi compagnie europee e straniere, fatta di acquisizione di imprese, grandi e medie, strategiche e non, marchi storici e successi recenti, spesso per chiuderle, eliminando concorrenti, penetrando un mercato ancora ricco.
La ripresa, dopo la grande crisi, è stata debole. Oggi Germania e Francia hanno recuperato e superato di oltre il 10% il Pil del 2007. L’Italia no, è ancora al di sotto. Nel frattempo, si è ridotta anche la crescita potenziale, ovvero il tasso di crescita raggiungibile con l’impiego di tutti i fattori della produzione disponibili. Questo significa che in ogni fase di ripresa, l’Italia tende a crescere meno degli altri.
È per questo che serve la paziente costruzione di una agenda condivisa, che nasca dal confronto su un insieme di temi strategici per il nostro futuro; l’insieme di questi è il contenuto dell’Interesse Nazionale. Un concetto che può apparire antico, ma che in realtà vediamo operare febbrilmente in tutti i nostri partner, e che emerge, nella sua semplicità, proprio dall’analisi dei problemi che abbiamo di fronte a noi, tutti insieme, e che avranno di fronte a loro le prossime generazioni.
La grande crisi, la più lunga da un secolo e mezzo, ha ridotto dal 2008 al 2018 il 32,3% degli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno e del 15,5% nel Centro-Nord. È stato calcolato che nel periodo tra il 2006 e il 2016 siano venuti a mancare ben 130 miliardi di investimenti pubblici. Tra settore pubblico e settore privato, se gli investimenti fissi lordi fossero proseguiti al modesto ritmo dei primi cinque anni del secolo, l’economia italiana avrebbe potuto contare su 850 miliardi in più. Anche nei consumi l’Italia si è impoverita. Nel lungo periodo tra il 2008 e il 2018, il calo complessivo della spesa per consumi finali delle famiglie nel Mezzogiorno si è ridotta cumulativamente del 9,2%, nel Centro Nord è cresciuta dello 0,7% (in dieci anni!); la spesa alimentare è scesa del 14% al Sud e nelle Isole e del 9% al Centro Nord.
Non si possono tuttavia sottacere alcuni elementi strutturali di forza del sistema italiano, che gli hanno consentito di reagire, e che sono usciti ancora saldi dalla Grande Recessione 2008-2015.
Primo. Il sistema produttivo italiano ha subito un brutale processo di selezione, ma ne è emerso un nucleo forte di imprese esportatrici che hanno raggiunto importanti posizioni strategiche. L’Italia ha accresciuto proprio nel periodo della crisi la sua posizione di avanzo nella bilancia dei pagamenti, con risultati eccezionali nella componente commerciale: si è passati da un disavanzo di 8,6 miliardi nel 2007 a un avanzo di 47,4 nel 2017, e uno di poco meno di 40 miliardi nel 2018, che porta l’Italia al secondo posto in Europa dietro l’enorme surplus tedesco di 249 miliardi (depurato il dato olandese della movimentazione marittima del porto di Rotterdam). L’Italia si presenta oggi come un paese creditore verso il resto del mondo, con una posizione netta solida, che contribuisce alla crescita dell’economia mondiale. Siamo tra le formiche, non tra le cicale.
Non consumiamo risparmio altrui. Il nostro Paese, dunque, nonostante la deindustrializzazione degli anni Novanta e Duemila, nonostante lo smantellamento e l’alienazione delle grandi imprese pubbliche e private del secolo passato, nonostante la grande recessione, conserva un nucleo industriale e manifatturiero importante. Esso è situato nella macroregione Centro Nord, quella che oggi è stata colpita frontalmente dall’epidemia da Covid-19. Tuttavia, i dati delle esportazioni del periodo 2015-2018, dimostrano una certa vitalità anche di un nucleo di imprese esportatrici nel Mezzogiorno. È essenziale preservare questo nucleo imprenditoriale anche nella presente emergenza che mette a rischio l’intera dotazione produttiva.
Secondo. La ricchezza netta delle famiglie e delle imprese non finanziarie italiane – con un ammontare di 9.743 miliardi a fine 2017 – continua ad essere la più elevata d’Europa. Rappresenta un eccezionale elemento di solidità per le famiglie, e un ammortizzatore sociale di riserva, un invidiabile ancoraggio per il sistema bancario nazionale. La decennale stagnazione dei redditi, gli effetti futuri della riforma previdenziale, la dinamica demografica, sono tuttavia elementi che consigliano di concentrare importanti energie per tutelare quel fondamentale primato del risparmio italiano, che non trova oggi fonti di alimentazioni, se non nel buon andamento dei mercati finanziari. Sarebbe opportuno, infine, premettere in ogni documento di finanza pubblica, insieme ai dati obbligatori del semestre europeo, sempre la serie storica del debito globale (settore pubblico, famiglie, imprese), la posizione netta della bilancia dei pagamenti nelle sue componenti finanziarie e commerciali.
Terzo. Una finanza pubblica che, da 25 anni, realizza ogni anno un avanzo primario non può certo essere definita fuori controllo. La riduzione di quasi mezzo milione di dipendenti pubblici nel corso del decennio 2008-2018 apre la strada per una fase di rinnovamento della macchina di Stato, Regioni, Comuni, del Servizio Sanitario Nazionale che sarà un’occasione che sarebbe sciagurato perdere, che potrebbe attenuare l’esodo di giovani ormai stabilmente disposti all’emigrazione.
Quarto. Nell’ultimo triennio, dopo gli accordi sull’unione bancaria, e alcuni casi di salvataggi e interventi non brillanti anche da parte delle autorità europee, il sistema bancario nazionale ha attraversato una profonda e incisiva riorganizzazione, recuperando una posizione di solidità patrimoniale e redditività nei servizi (nel 2018 sono tornate nel complesso a esprimere un utile netto di 12,2 miliardi; con una riduzione delle sofferenze del 40,5%, scese in valore assoluto al disotto dei 90 miliardi; il patrimonio sul totale delle attività si è assestato all’11,5% rispetto al 7% del 2004).
Quinto. Il successo del turismo internazionale in Italia sembra un fenomeno strutturale sul quale servirebbe una riflessione profonda da parte della classe dirigente del Paese su come capitalizzarlo al meglio. I dati pubblicati dalla Banca d’Italia segnalano nel triennio 2016-2018 una crescita della spesa complessiva in euro da 31,2 a 36,2 miliardi, un aumento dei pernottamenti da 30,9 milioni a 34 milioni, un numero di viaggiatori che sale dai 70,3 milioni a 78,9 nel 201822. Nel solo 2018 la spesa dei viaggiatori stranieri è cresciuta del 6,5%, la bilancia dei pagamenti turistica porta un avanzo netto dello 0,9% del Pil. È vero che se la provincia di Venezia attira più viaggiatori di un paese come il Belgio, è vero anche che l’intero Mezzogiorno ha meno turisti delle isole Baleari. Tuttavia, negli ultimi anni è proprio nel Sud e nelle Isole che si stanno consolidando i risultati più interessanti. Come è noto è questo il settore che viene colpito oggi in modo più duro, con un azzeramento dei fatturati da viaggiatori internazionali, e che necessita di un intervento d’urgenza almeno biennale, per il rischio della desertificazione imprenditoriale. L’epidemia colpisce le basi stesse del turismo generando paure ben motivate e difficili da superare. In questo l’Italia si trova in una situazione simile a paesi come Francia e Spagna, molto colpiti dal Covid-19 e paesi come l’Austria, meno colpita. È necessario attuare politiche coordinate in modo da uscire insieme da questa crisi strutturale che non può essere affrontata con gli strumenti validi per gli altri settori produttivi. Tutti i Paesi turistici avvieranno nell’immediato politiche per favorire la ripresa del mercato domestico. Ma servirà ben altro, anche individuando autorità dedicate con poteri commissariali e un ripensamento generale sulla governance nel riparto di competenze tra centro ed enti territoriali.
L’errore più grave sarebbe accontentarsi di questi ancoraggi di un sistema ancora vivo. Anche perché la spaventosa eredità della Grande Recessione 2008-1015 e della debole ripresa degli anni più recenti si deve proiettare sulla sfida che il Paese ha di fronte a sé, una sfida esistenziale, che emerge dal documento pubblicato dall’Istat il 3 maggio 2018 e che ha fatto tanto discutere in termini di secular stagnation: «Il futuro demografico del Paese. Previsioni regionali della popolazione residente al 2065».
Riassumendo i termini dello scenario «mediano», ovvero quello dotato di maggiore probabilità di avverarsi, che rispetto alla popolazione attuale di circa 60,5 milioni di abitanti ipotizzano uno scenario di 59 milioni nel 2045 e di 54,1 nel 2065, con una perdita di 6,5 milioni di residenti rispetto ad oggi. La forchetta probabilistica oscilla tra un minimo di 46,4 milioni (con una riduzione quindi di 14 milioni di persone) e un massimo possibile di 62. Lo scenario «mediano» implica l’avverarsi di condizioni che, da sole, necessitano di un certo impegno di politiche pubbliche, per esempio un significativo accrescimento della fecondità femminile, un continuo flusso positivo di immigrazione, al netto dell’emigrazione italiana verso l’estero, che in ogni caso (sempre nello scenario mediano) è prevista proseguire a colpi di 130 mila persone l’anno, con una riduzione globale di popolazione di 6,6 milioni.
La ricerca Istat ha fatto discutere perché si discosta dalla precedente del 2011 che prevedeva una sostanziale stabilità della popolazione residente nel prossimo cinquantennio. Ma tra la stima del 2011 e quella del 2018 c’è di mezzo la Grande Recessione.
La grande differenza – oltre che in termini metodologici – è quella della dinamica divergente tra Centro Nord e Mezzogiorno. Nel breve termine, fino al 2025 il Centro Nord continuerebbe a manifestare un bilancio demografico positivo con un indice +1,3 per mille annuo nel Nord Ovest, Nord Est (+1,3 per mille) e Centro (+1,2 per mille), mentre il Mezzogiorno sarebbe in piena recessione demografica, con il Sud a -2,6 nati per mille residenti, e le Isole con -2,9. Nel periodo intermedio, la crescita demografica del Centro Nord rallenterebbe, restando positiva; mentre nel Mezzogiorno si aggraverebbe al -4,5 e -4,7 per mille. Nel lungo periodo, ovvero nel periodo tra il 2045 e il 2065 anche il Centro Nord entrerebbe in recessione demografica, a un tasso annuo di circa il –3 per mille, mentre il Mezzogiorno precipiterebbe in un bilancio demografico drammatico a -8,3 per mille.
Questo piano inclinato trae origine da una serie di fattori che si congiungono negativamente, ovvero da una situazione con meno donne fertili, anche se con fecondità in aumento, la graduale uscita dalla fase lavorativa dei «baby boomers», un aumento della speranza di vita di oltre 5 anni che porta a una popolazione con coorti anziane assai più numerose e più decessi, in quanto le classi anziane sono più numerose, anche se longeve. I nuovi nati tendono a scendere attorno ai 420 mila per anno (basta pensare che il picco storico è il 1922 con 1.176 mila nati e il 1964 con 1.061 mila nati), rispetto agli attuali 465 mila. I decessi sono stati, nel 2018, 633 mila e tenderebbero a salire nel 2040 a 736 mila, a 854 mila nel 2058 e a 825 mila nel 2065.
Il saldo naturale scenderebbe a -200 mila unità nel breve termine (2024) e successivamente a -300 mila nel medio (2044), e infine a -400 mila nel lungo termine (2053). Si disegna il quadro di un Mezzogiorno spopolato, con borghi e città semivuote, popolazione anziana, scarsa forza lavoro, poche persone in attività. L’età media della popolazione tenderebbe a salire da 43-44 anni a 51,5.
Le proiezioni di Eurostat 2018 sono addirittura peggiori di quelle Istat. Esse prevedono infatti una popolazione italiana al 2065 pari a circa 51 milioni, con una diminuzione di 9,5 milioni pari a -14,9%. Ma non è per questo motivo che rivestono importanza. Esse ci mettono di fronte alla realtà dei bilanci demografici degli altri Paesi e ci fanno comprendere come i nostri partner europei stiano pensando oggi a come sviluppare una strategica demografica per il proprio futuro. Infatti, le dinamiche demografiche implicano una inerzia talmente profonda che lo spostamento, anche minimo, della curva necessita di interventi decenni prima. In Italia si tende a sorridere quando si propongono previsioni al 2065. Ma il 2065 è oggi. Lo si costruisce oggi. Tra cinque-dieci anni sarà tardi.
La Repubblica francese ha impostato una articolata strategia demografica, con aspetti fiscali, ma anche di integrazione repubblicana degli stranieri, fin dal 1981. La Germania ha impostato una vera strategica demografica soltanto dopo la riunificazione, nel 1991. Oggi la Francia mostra un bilancio demografico positivo, che la porterebbe a raggiungere i 72 milioni di residenti nel 2065. Se fossero disponibili proiezioni per il decennio successivo, è facile prevedere che la situazione sarebbe quella di una popolazione doppia rispetto a quella italiana. E questo accadrebbe partendo da una popolazione uguale nel 1990! Sappiamo che la dirigenza d’oltralpe prevede che la popolazione francese superi quella tedesca entro il 2080. La Germania, infatti, presenta un bilancio stagnante e in prospettiva negativo per la sua popolazione, con una riduzione del 2,2% al 2065 (80 milioni e 965 mila residenti). La dinamica più energica in termini di popolazione è quella del Regno Unito che con una crescita del 22,6% a 81,3 milioni. La Gran Bretagna supererebbe la popolazione tedesca già nel 2065. Ancora meglio la Svezia, con una crescita del 40,9% da 10 a 14,2 milioni. Mentre nella zona della recessione demografica troviamo il Portogallo, peggio dell’Italia, con una riduzione del 19,4% e una perdita in
mezzo secolo di 2 milioni di persone; anche la Grecia ridurrebbe di 2 milioni i propri abitanti. La Spagna, che Eurostat prevede in crescita del 4,7% a circa 49 milioni, si accingerebbe in pochi anni a superare la popolazione dell’Italia.
Che ruolo geopolitico avrebbe un’Italia con una popolazione inferiore della metà a Germania, Francia e Regno Unito? Con una popolazione che viene superata dalla Spagna? Non solo il G7. Ma anche il G20 potrebbe diventare un miraggio. Ma quel che è più grave è la proiezione in termini di reddito, di Pil e di Pil pro capite di questa trappola demografica nella quale siamo già entrati. Un saggio pubblicato nella collana «Questioni di economia e finanza» della Banca d’Italia ipotizza delle proiezioni che dovrebbero essere ben presenti al decisore politico di oggi. Va premesso che questo scenario ipotizza che tutto si svolga abbastanza bene, e cioè senza grandi scossoni, con politiche invariate che producano gli effetti sperati. E cioè c’è sempre uno scenario peggiore. L’effetto meccanismo della riduzione demografica porterebbe l’Italia a subire un calo del Pil del 24,4 per cento rispetto al 2016 e del 16,2% in termini di Pil pro capite con una riduzione dello 0,4% annui. In assenza di flussi migratori la riduzione del Pil salirebbe a -50,1% e al -33,3% pro capite.
Un mercato interno che sarebbe la metà di quello di oggi come verrebbe considerato dai produttori? Quante imprese italiane reggerebbero alla «nanizzazione» del mercato domestico? La ricerca di Barbiellini Amidei, Gomellini e Piselli pubblicata dalla Banca d’Italia, nel marzo 2018, già chiaramente individuava gli strumenti di politica economica per arginare la catastrofe in atto, con le tendenze demografiche attuali. Lo studio in realtà si concentra prevalentemente sulle politiche che la ricerca economica evidenzia possibili per evitare l’effetto della tendenza demografica sulla riduzione del prodotto interno lordo e del prodotto pro capite. Tuttavia, una strategia di Interesse Nazionale, volta a far sì che l’Italia esista ancora nel futuro, non può rinunciare in partenza a cercare di correggere la curva demografica stessa con un insieme connesso di politiche fiscali, assistenziali, sociali, di servizi che – tutte insieme – convergano a quell’obiettivo. Costruire questa politica dovrebbe essere oggetto centrale della discussione.
In primo luogo, la produttività. Per correggere lo scenario base al 2065 di riduzione del Pil del 24,4% e del prodotto pro capite del 16,2, servirebbe un aumento costante per tutto il periodo di produttività dello 0,3% all’anno. Sembra poco, ma non lo è, se si considera la variazione nulla dal 2000 ad oggi. In assenza di flussi migratori di lavoratori stranieri avremmo una riduzione del Pil pro capite del 33,3%, doppia rispetto allo scenario base.
Uno scenario alternativo, e ben più positivo, potrebbe invece giungere da interventi su tre fattori compensativi nei quali l’Italia presente un considerevole gap: l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro; l’aumento della vita lavorativa; un miglioramento qualitativo di capitale umano nella forza lavoro, cioè, in parole più semplici, un aumento generalizzato del livello di studio e formazione.
La bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro nel Mezzogiorno (il 32,8%, ovvero oltre 30 punti in meno della media europea) è già oggi una delle ragioni fondamentali della paralisi del reddito nel Sud e del mancato recupero dei livelli di reddito pre-crisi. È alle origini anche della previsione di recessione demografica con due decadi di anticipo rispetto al Centro Nord. A livello nazionale, il divario tra la partecipazione femminile al mercato del lavoro e la media dell’Unione Europea resta inchiodata al 10 per cento nonostante un lieve miglioramento (nel corso del 2019, per la prima volta, si è superata la soglia del 50%). La ricerca Barbiellini Amidei, Gomellini, Piselli calcola che sarebbe sufficiente il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, con un tasso di partecipazione al lavoro del 60% delle donne, e del 70% degli uomini per ridurre il calo del Pil pro capite da -16,2 a -2,9%35. Ma il fattore più efficace per annullare la caduta del Pil causata dalla recessione demografica sarebbe un innalzamento generale dell’istruzione e della formazione della forza lavoro che condurrebbe, nella ipotesi avanzata da Barro e Lee, a una riduzione dell’impatto dovuto alla riduzione della popolazione a un Pil pro capite che si ridurrebbe nel 2065 del 3,8%. In una ipotesi più ambiziosa, di una convergenza della forza lavoro italiana ai livelli di istruzione tedeschi, il divario di prodotto verrebbe annullato in termini pro capite (+3,1%).
Tra tutte – insieme a quella della partecipazione femminile al mercato del lavoro – la questione dell’istruzione è forse il nodo centrale di una politica dell’Interesse Nazionale. Qualche miglioramento c’è, ma la velocità è insufficiente, e gli altri corrono più di noi. Nel 2005, ancora il 50,3% della popolazione tra 25 e 64 anni in Italia aveva conseguito solo un diploma di scuola media inferiore. Questo indicatore è migliorato. È sceso nel 2018 al 38,5%. Ma siamo sempre i peggiori insieme alla Spagna (40,9%) e ci confrontiamo con la Germania dove il 13,5%
(tra i residenti tra i 25 e i 64 anni) ha solo il diploma di scuola media inferiore. Abbiamo troppo pochi laureati.
Ne servono urgentemente di più. Servirebbero più diplomi terziari tecnici. Servirebbero diplomi universitari biennali. La quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario è salito al 27,8% rispetto a una media europea superiore al 40% (44% in Francia; 48,3% nel Regno Unito; 53,5% in Irlanda). Nel 2004 esibivamo un misero 15,6%, ma il ritmo del miglioramento non ci consente di contribuire alla crescita della produttività a un livello tale da compensare i fattori negativi.
Nonostante la questione nazionale dell’istruzione sia il perno di tutti i problemi e la chiave per la loro possibile soluzione, lo sforzo collettivo, pubblico e privato, appare modesto. Le attività di formazione permanente coinvolgono una quota misera di lavoratori: l’8,1% nel 2018, contro il 19,2% dei Paesi Bassi, il 15,8% dell’Austria, il 26,8 della Danimarca. La spesa annuale per studente nell’istruzione terziaria (università e istituzioni che rilasciano diplomi post scuola secondaria) è di 11.600 dollari, contro i 15.500 della media dei paesi OCSE.
Non solo. La percentuale di contributo finanziario che si richiede alle famiglie è più alta, visto che in Italia il contributo pubblico copre solo il 63%, contro il 76% della media UE. Esiste un drammatico spreco di capitale umano che resta inattivo e si depaupera nei NEET, ma anche in quel 7% degli studenti che alla fine della scuola secondaria superiore non raggiunge il livello di competenze fondamentali in italiano, matematica e inglese (è il fenomeno della cosiddetta «dispersione implicita»). La Fondazione Agnelli segnala anche che dopo una lunga discesa, la percentuale di abbandoni scolastici è risalita dal 13,8 del 2016 al 14,5% del 201839.
Appare di tutta evidenza come emerga un interesse nazionale italiano precipuo nel perseguire quelle politiche sociali, economiche, formative che attenuino, e auspicabilmente annullino, gli effetti della recessione demografica. La proiezione Istat ed Eurostat al 2065 serve a metterci di fronte oggi alle responsabilità di oggi.
Per sfatare la terribile profezia è ancora aperta una finestra temporale. Essa coincide con questa legislatura e con la prossima.