TAIWAN, LA CINA E LA COVID
Ad un seminario internazionale on line, organizzato dalla School of Advanced International Studies- Europe della Johns Hopkins University a Bologna, pochi giorni fa, è stato sottolineato che quasi nulla si sa di come Taiwan ha sconfitto la Covid 19. La piccola Repubblica ha 24 milioni di abitanti (cioè poco meno del Nord Italia) ed ha avuto soltanto pochi centinaia di infezioni , nonostante sia a due passi dalla Cina, Paese dal quale è partita la pandemia. Taiwan ha avuto appena 382 casi, di cui 6 sono morti e gli altri guariti. Inoltre, ha saputo gestire la crisi sanitaria senza ricorrere ad alcun lockdown. Scuole, negozi, aziende. Niente si è fermato a Taiwan, il cui modello di contenimento dovrebbe essere analizzato al pari di quello messo in campo da Corea del Sud, Singapore e Cina. Eppure il successo di Taipei è eclissato dalla storia di questo stesso Paese. Taiwan è la Cina democratica, la stessa la cui indipendenza non è riconosciuta dalla Repubblica Popolare cinese e da quasi tutte le nazioni, a eccezione di una ventina. La “provincia ribelle”, inoltre, non fa parte neppure dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sempre per i veti di Pechino.
Lo scorso 31 dicembre il Paese ha iniziato a monitorare i viaggiatori provenienti da Wuhan; l’8 febbraio ha invece chiuso i confini ai cittadini della Cina comunista. Taiwan ha poi delegato il tutto a un Centro di comando anti epidemia, che ha avviato i protocolli creati dopo l’emergenza Sars, epidemia scoppiata a cavallo tra il 2002 il 2003.
Senza indugi, le misure sono state comunicate ai cittadini. Le aziende hanno ricevuto l’ordine di incrementare la produzione di mascherine; applicazioni e big data hanno fatto il resto, tracciando i soggetti contagiati e controllando che i pazienti a rischio restassero chiusi in casa
Di fronte al successo sanitario di Taiwan, l’Oms è parsa in imbarazzo. Come riconoscere di fronte al mondo intero gli ottimi risultati conseguiti nella lotta contro il Covid-19 senza scatenare le ire di Pechino? Difficile se non impossibile. E allora silenzio ermetico.
Invece, la Cina e le sue ambasciate (particolarmente attiva quella di Roma) stanno facendo una campagna attiva per sostenere come il regime autoritario (il Partito Comunista Cinese) abbiano dato prova della loro efficacia e superiorità rispetto alle “vetuste” democrazie rappresentative occidentali nella battaglia contro il Covid-19 (dimenticando di dire, naturalmente, dove e come è nato e dove e come è stato occultato). Lo hanno sottolineato a metà aprile sia The Economist sia The New York Times International.
La battaglia utilizza toni sempre più nazionalisti a tutti i livelli; ad esempio, ristoranti cinesi espongono manifesti con la scritta America, goditi il Covid 19– Giappone, il Covid ha iniziato un bel viaggio verso il Sol Levante.
Questi accenti iper-nazionalisti sono diventati terribili nei confronti degli stranieri che vivono in quello che fu il Celeste Impero: ad esempio, gli africani che lavorano da lustri nel Sud sono trattati come untori, se non peggio. La strategia verso il predominio mondiale è iniziata da anni ed ha caratterizzato la presa di potere di posti chiave in organizzazioni internazionali. Ormai – è noto – la Fao è considerata come un appannaggio cinese.
Ho lavorato a lungo con la Cina e con i cinesi. So che specialmente le popolazioni delle regioni centrali si considerano un popolo eletto, superiore a tutti gli altri; ciò spiega anche il trattamento da loro riservato ai tibetani e – peggio ancora- agli uiguri. I “bianchi” occidentali sono visti come una specie inferiore che ha “rubato” alla Cina innovazioni come la polvere da sparo e gli spaghetti ed ha usurpato per secoli il potere mondiale a cui solo i cinesi avevano ed hanno titolo.
In un’intervista al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale afferma che la vicinanza alla Cina ostentata dalla Farnesina è frutto di Realpolitik. Mi chiedo quali sono gli interessi che legano l’Italia (non qualche personalità o qualche gruppo politico) alla Cina tanto da fare considerare quello che fu il Celeste Impero un partner privilegiato.
Luigi Di Maio dovrebbe tenere presente che una Realpolitik non può prescindere da questi elementi:
- a) Il coronavirus, e la strage che sta facendo in tutto il mondo, proviene da una Cina nelle condizioni riassunte da Balducci, anche e soprattutto perché il governo ha celato il problema per almeno due mesi. Negli ultimi trent’anni, altre due letali epidemie (anche se in Europa non così gravi come il Covid-19) sono nate nel sottosviluppo e la promiscuità tra uomini ed animali che dietro grattacieli ed alte tecnologia (spesso ottenuta contraffacendo brevetti occidentali) domina gran parte della Cina di oggi.
- b) L’offensiva del sorriso e della “carità pelosa” di questi giorni non deve trarci in inganno. Pechino sa che dopo il coronavirus, sarà isolata in quello che, ai tempi di Bismarck, veniva chiamato “il consesso delle Nazioni”. Gli Stati Uniti hanno fatto capire senza mezzi termini che quello che sarebbe dovuto essere un primo armistizio commerciale non verrà seguito da un secondo vero accordo commerciale, ma da una nuova guerra dei dazi. I maggiori Stati europei stanno cercando di forgiare una strategia comune ben articolata nei confronti degli autocrati della Città Proibita soprattutto in tema di alta tecnologia (come il 5G). Nessuno di loro è caduto nella trappola di siglare un Memorandum of Understanding come quello firmato dall’Italia. Quindi un “gemellaggio” con la Cina ci isolerebbe nel mondo occidentale e sarebbe contrario agli interessi dell’Italia.
- c) Mentre li corteggiamo i cinesi (che si ritengono la razza eletta) ci sbeffeggiano, senza che la nostra diplomazia faccia nulla. Ad esempio, una televisione (di Stato) cinese ha mostrato immagini del flash mob in cui si cantava il nostro Inno Nazionale affermando che erano espressioni di gioia e ringraziamento per il cargo di materiale medico giunto a Ciampino da Pechino.
Occorre anche riflettere sul disastro pure ecologico che la Cina sta causando nel bacino del Mekong. Il fiume nasce nelle alture del Tibet, ora Regione autonoma della Cina, e bagna la Myanmar (il nome odierno dell’antica Burma), la Thailandia, il Laos, la Cambogia ed il Vietnam. Ha acque molto ricche che rendono molto fertili le terre che attraversa e molto prospera la pesca fluviale. Ed è un fiume imponente, le cui piene (un tempo frequenti) provocano tracimazioni ed alluvioni, ma che è stato per millenni una delle principali fonti di produzione e di reddito dell’area. In Cina, il Mekong scorre tra gole in un’area priva sostanzialmente di agricoltura e di pesca e le sue acque possono essere utilizzate per energia idroelettrica.
Un lungo e dettagliato rapporto di Eyes on Earth, un’organizzazione internazionale privata di studio ed analisi dei problemi delle acque: un documento tecnico, voluminoso e corredato, oltre che da dati, di fotografie aree, documenta che la Cina che non ha aderito all’organizzazione creata dai cinque Paesi a valle per la valorizzazione del bacino del Mekong , a monte sta, poco a poco, utilizzando il fiume solo per sé, riducendo il flusso delle acque verso gli altri. Ha costruito 11 grandi dighe idroelettriche che producono molta più energia di quanto possa essere utilizzata dall’area di sua spettanza e ne sta edificando altre per creare bacini di acqua.
Sembra uno spreco di risorse, ma la Cina sa di venire da lontano e di guardare lontano: il cambiamento climatico sta avendo effetti sui ghiacciai dell’Himalaya, che alimentano il Mekong. In breve, mentre in Tailandia ed anche in Vietnam imperversava la carestia, ed il settore della pesca fluviale (oltre all’agricoltura) dei rispettivi Paesi andava a gambe all’aria, l’acqua veniva tenuta prigioniera in bacini costruiti per catturarla ed utilizzarla in tempi di magra. La Cina dice di considerare “amici” anzi “fratelli” Paesi, alcuni dei quali proclamano di avere preso una strada al comunismo che si ispira a quella di Pechino. Nel frattempo, toglie loro l’acqua. Ciò dovrebbe essere un monito per chi, alla Farnesina, vuole essere “amico”, anzi “fratello”, della Repubblica Popolare.