Tim: una questione di sicurezza nazionale
Lo storico Greco Polibio, nell’analizzare le cause dei successi della Repubblica Romana, per primo traspose su un’opera il concetto di anaciclosi: una teoria dell’evoluzione caratterizzata dalla ciclica alternanza di fasi positive ma deboli e intrinsecamente instabili, destinate a mutare naturaliter in forme negative, incontrollabili e degeneri ma soprattutto portatrici di particolari vizi e difetti, specchio rovesciato della loro forma “benigna”. Con i dovuti distinguo, la storia recente di Tim (dalla privatizzazione del 1997 ad oggi), è stata senza dubbio “anaciclotica” e camaleontica. Ai regolari cambi di proprietà annunciati con ottimismo prima e rassegnazione poi dalla stampa di mezza Italia, ha fatto seguito un progressivo peggioramento dei rapporti e degli equilibri in capo all’azionista di controllo, anche a causa di delicate vicende giudiziarie, che hanno fatto di Telecom una gigantesca porta girevole in cui consumare un fugace passaggio. Con l’aggravante che il mercato in cui era solita ad operare da efficiente monopolista si è via via ristretto, tanto che oggi l’ampiezza dello scontro è proporzionale all’inesorabile declino che vede unicamente nella rete la sua ancora di salvezza. I 30 miliardi di debito che gravano come una spada di Damocle sulla testa della società, sono il punto di partenza per comprendere come lo scontro tra Vivendi ed Elliott rischi di tradursi in un pessimo affare per consumatori e investitori. Nessuno dei soci privati che si sono succeduti è riuscito a fare fronte ad un problema di per sé irrisolvibile: la contraddizione formale che ha portato i capitani coraggiosi a ritenere erroneamente di poter replicare con “l’Opa all’Italiana” (quella con annesso debito), quanto portato avanti su altre società privatizzate che tutt’oggi conservano un chiaro monopolio naturale, risolvendosi invece in un buco nell’acqua con la crescente concorrenza nel settore delle telecomunicazioni. Un giusto mantra che ha soffocato per sempre ogni possibilità di sviluppo futuro di Telecom Italia, così l’Italia si ritrova da pioniera della fibra coassiale della Stet di Ernesto Pascale, a dover immaginare scenari futuri di scorpori di rete o servizi per porre fine ad un profondo vulnus generazionale che ha segnato per un ventennio la nostra crescita economica e al quale, governo permettendo, non si è ancora trovata una soluzione. Perché le radici più profonde di Tim oggi bussano alla porta della stanza dei bottoni, reclamando una gerarchia di tutto rispetto nella narrativa pentastellata delle telco tanto cara a Casaleggio, ed è lecito pensare che un tassello chiave nella crisi diplomatica con la Francia l’abbia giocata proprio la sorte dell’ex monopolista contesa in borsa da Vincent Bolloré. La funzione organica di Tim infatti, non si estrinseca soltanto nella sua permeante presenza nelle abitazioni degli Italiani, ma attraversa la dorsale in fibra ottica Seabone di Sprakle sino a giungere in Israele e nel Medio Oriente, poi in Asia, America e nel resto del mondo. Anche Telsy poi, vera eccellenza italiana nel settore della cybersecurity, rappresenta la personificazione della sicurezza delle comunicazioni del nostro apparato statale, prima ancora che questo termine oggi tanto inflazionato prendesse piede. L’azienda nata nel 1975 in pieni anni di piombo allo scopo di fornire alle forze di polizia sistemi di comunicazioni cifrata, è diventata una controllata di Telecom Italia nel 1990, ed annovera tra i suoi clienti le più alte gerarchie Ministeriali, le forze armate e Palazzo Chigi. In uno scenario geopolitico di totale incertezza, una eventuale caduta di Telecom Sparkle, “snodo di telecomunicazioni di tutto il mondo occidentale” e dei telefonini di Telsy in mani straniere, rappresenterebbe la pietra tombale alle nostre ambizioni da potenza regionale in tutto il Mediterraneo, nonché un deficit di credibilità internazionale ormai da “protettorato” difficilmente recuperabile. Questa eventualità non solo è da scongiurare con tutte le forze che possono essere messe in campo, ma occorre sgombrare in fretta il cielo di Tim dalle fosche nubi che si addensano per far tornare il sereno, coniugando le necessità strategiche a quelle economiche. La decisione di uno scorporo della rete, disapprovata dall’Agcom per via del mantenimento di una univoca posizione dominante, opererebbe secondo i suoi detrattori a favore di una filosofia che non tiene conto del valore storico e sociale di Telecom Italia che verrebbe così smembrata e cannibalizzata in assenza dell’infrastruttura, unico asset di valore da porre come contraltare alla furia del debito e degli interessi miliardari che da 20 anni si pagano su di esso. Il conferimento della rete ad Open Fiber inoltre solleva parecchi dubbi sul piano occupazionale visti i possibili esuberi all’orizzonte in un clima di congiuntura negativa, Tim non si farebbe trovare impreparata avendo ridotto progressivamente l’organico ma ciò potrebbe comunque non bastare ad evitare il rischio di un uso massiccio delle cesoie.
Una soluzione opposta che risolverebbe i problemi di quest’ordine potrebbe essere lo scorporo del gestore di servizi, che sarebbe comprensivo dei rami commerciali di vendita e distribuzione, ramificati in tutta Italia. La nuova società sarebbe pesantemente alleggerita dal carico del debito che continuerebbe a gravare parzialmente su Tim Reti, in misura tale da non compromettere gli investimenti avviati da Open Fiber e da consentire allo stesso tempo alla neonata Tim servizi una strategia di ampio respiro basata sullo sviluppo del 5G, che ha visto nel frattempo un esborso notevole (record europeo e forse mondiale) alle aste di aggiudicazione delle frequenze. L’infrastruttura rimarrebbe dentro il perimetro della società storica, insieme agli altri asset strategici del gruppo: Sparkle, Telsy ed Inwit che sarebbero così messi definitivamente al riparo dalle tempeste del mercato.
Con lo scorporo di Tim Servizi, Tim Reti potrebbe continuare la sua politica di esuberi controllati con l’appoggio delle forze sociali più rappresentative, decidendo a tavolino anche una quota del debito da trasferire alla neonata società. A questo punto entrerebbe in gioco Vivendi, che vedrebbe di buon occhio come ponti d’oro una storica fusione del ramo dei servizi con Mediaset, un’operazione da sempre rimandata che però parrebbe destinata ad avverarsi nel prossimo futuro, in assenza del rischio di integrazione verticale ravvisato dall’Antitrust.
Una terza soluzione, che parrebbe quella più praticabile da CDP ed Elliott nel terreno borsistico, è il rafforzamento della presenza del “sindacato di voto” ostile a Vivendi nell’azionariato di Tim. La società francese ha svalutato per la seconda volta da luglio il valore della sua partecipazione di poco più di un miliardo e questo agevolerebbe le mire di controllo sul CDA in caso di una nuova convocazione. Al di là dei tatticismi da adoperare nel breve periodo, rimarrebbe lo scetticismo sul raggiungimento di un accordo stabile che decida una volta per tutte il destino della società, ammesso e concesso che Vivendi non molli la presa, senza una visione di lungo periodo a perderci sarebbe unicamente l’Italia. Non Elliott di sicuro che gode già di un paracadute che dimezza le perdite del valore azionario e nemmeno Bolloré che potrebbe decidere di cedere a caro prezzo le proprie quote ponendo fine alla sua calata ostile in Italia.
In ogni caso con il ridimensionamento del raider Bretone i dubbi che si palesano sulla proprietà degli asset strategici andrebbero progressivamente a scemare e si aprirebbero nuovi scenari sull’agenda digitale, che potrebbe essere portata a conclusione in tempi ragionevoli con maggior afflusso di capitali. Recuperare il divario accumulato nel tempo è una necessità oramai improcrastinabile 25 anni dopo il congelamento del lungimirante progetto SOCRATE. Le infrastrutture materiali e immateriali sono oggi l’unico gold standard praticabile (meglio se con l’apporto di risorse private) per condurre l’Italia fuori dalle sabbie mobili della recessione e verso una sana ripresa economica, che non può prescindere da moderne e sicure telecomunicazioni.
*Giovanni Maria Chessa, collaboratore Charta minuta