Tra quasi vittorie e mezze sconfitte
Secondo Fox News – principale canale televisivo Usa di orientamento “conservatore” – il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis è il grande vincitore delle elezioni di metà mandato, mentre Donald Trump è il grande sconfitto. Molti altri commentatori, anche sui media liberal, hanno condiviso questa analisi, ripresa, con varie tonalità anche dalla stampa italiana.
Alcuni fattori, però, invitano alla prudenza. A parte l’ovvia notazione che Trump non era neppure candidato, è a dir poco singolare che un risultato deludente, o quantomeno meno positivo delle aspettative, del partito repubblicano venga addebitato ad una persona sola, che per di più, al suo interno, non ha neppure un ruolo ufficiale. E che passino in secondo piano le responsabilità di altri leader, che, a differenza di Trump, sono titolari di incarichi elettivi o di ruoli ufficiali nella macchina del partito (come, ad esempio, il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell, per menzionarne solo uno).
Un altro elemento, poi, deve richiamare l’attenzione: ovvero che nessun repubblicano di primo piano abbia, sinora, addebitato il risultato delle elezioni a Trump. Il motivo è chiaro: il momento è delicato, e nessuno vuole esporsi. Si tratta di decidere come posizionarsi in vista delle primarie del partito dell’anno prossimo – quelle che davvero contano per decidere la leadership in vista delle presidenziali del 2024 – e commettere un passo falso ora potrebbe essere fatale. I “big” non si sbilanciano.
Di fatto, non abbiamo più l’election day, che tanto abbiamo ammirato ed invidiato, molte volte, al sistema Usa, ma una election season: gli elettori cominciano ad esprimere il proprio voto con settimane di anticipo, e in alcuni casi lo scrutinio si trascina per giorni dopo la chiusura dei seggi. Diventa più difficile, per i sondaggisti, intercettare in maniera affidabile le intenzioni di voto, ed è questo uno dei motivi per cui le rilevazioni demoscopiche risultano ripetutamente inattendibili quando si contano i voti “veri”. A propria volta, le discrepanze tra i sondaggi e i risultati effettivi hanno l’effetto di aumentare i sospetti di irregolarità.
Vi è poi un aspetto più squisitamente politico: le regole che consentono il voto anticipato favoriscono i candidati uscenti che corrono per la rielezione, che possono beneficiare su un’organizzazione più estesa e più rodata, e penalizzano gli sfidanti, soprattutto se si tratta di outsiders o candidati “contro il sistema”.
La “macchina elettorale” del partito democratico, nelle sue varie articolazioni statali, sembra essersi adattata meglio a queste regole del gioco, mentre i Repubblicani devono ancora decidere se insistere sul fatto che si tratta di pratiche che favoriscono le irregolarità, o adattarsi e organizzarsi di conseguenza. È un fatto, però, che i Repubblicani hanno ottenuto risultati ottimi, ad esempio, in Florida dove il voto a distanza è stato regolamentato in maniera restrittiva, ed è richiesta l’esibizione di un documento di identità per esprimere il voto (sembrerà strano, ma in molti Stati, tipo la California, non è obbligatorio).
Nessun senatore o governatore democratico che correva per la rielezione è stato sconfitto. E questo nonostante tutti gli indicatori facessero temere una possibile “punizione” da parte degli elettori per i candidati del partito di Biden. Sempre stando ai sondaggi di opinione, la popolarità del presidente è ai minimi termini, e il 75% degli elettori ritengono che gli Stati Uniti stiano procedendo nella direzione sbagliata. Tuttavia, i senatori e i governatori democratici che si sono ricandidati sono rimasti in sella, anche negli Stati dove le restrizioni anti Covid furono, a suo tempo, applicate in maniera più rigida, e pertanto erano temute ripercussioni elettorali.
Il Senato è ancora in bilico. Potrebbe esserci un pareggio (nel qual caso la maggioranza sarebbe assicurata ai Democratici dal voto del vice presidente Harris), ma è possibile anche una maggioranza repubblicana di misura. Saranno decisive le sfide ancora in fase di scrutinio in Arizona e Nevada, ed un ballottaggio per il seggio della Georgia che si terrà a dicembre. Chiaramente, se i Democratici perderanno anche il controllo del Senato, per loro sarà una chiara sconfitta, e si potrà suonare il de profundis per l’agenda dell’amministrazione Biden. E sì, si potrà parlare di “onda rossa” repubblicana.
Se, dunque, i risultati non sono ancora definitivi, e pertanto ogni analisi che si basi sul mero dato numerico deve essere posticipata, è però possibile cercare di capire quali sono stati i temi posti al centro dell’attenzione dell’elettorato, oltre, ovviamente, all’economia zoppicante e all’inflazione galoppante. Due, in particolare, sono i temi su cui i Democratici hanno puntato con una certa efficacia: l’aborto e il voto giovanile.
Quanto all’aborto, è vero, alcuni candidati “pro vita” sono andati molto forte, alle urne. Stiamo parlando, in particolare, di tre governatori repubblicani rieletti: Abbott in Texas, Kemp in Georgia e lo stesso DeSantis in Florida. Ma le prime grandi elezioni dopo la clamorosa sentenza Dobbs della Corte Suprema – che qualche mese fa ha archiviato la celebre sentenza Roe v. Wade, che diede copertura costituzionale a livello federale al diritto della donna di scegliere per l’interruzione volontaria della gravidanza – hanno prodotto nuove tutele per il diritto all’aborto. Gli elettori di tre Stati – California, Michigan, Vermont – hanno approvato norme costituzionali a garanzia dell’accesso alla procedura. E gli elettori del Kentucky – roccaforte repubblicana – hanno a sorpresa respinto una proposta di emendamento costituzionale che intendeva dichiarare l’inesistenza, in quello Stato, di un diritto all’aborto. Quale effetto paradossale dell’intervento della Corte Suprema, l’aborto è pertanto diventato argomento del dibattito politico come non lo era da decenni, e ciò ha favorito i candidati democratici – prevalentemente pro choice.
Un secondo fattore è stato il voto giovanile. I Democratici hanno sbaragliato i Repubblicani nella fascia di età under 30. Senza tali voti, si sarebbe materializzata subito e con chiarezza un’”onda repubblicana”. Potrebbe essere il risultato del programma di Biden per la cancellazione di una importante fetta dei debiti studenteschi. Una forzatura dei poteri presidenziali, ed un salasso per il pubblico contribuente, che può aver aiutato i Democratici – e Biden – a resistere alle urne.
In questo contesto, la diatriba tra Trump e DeSantis ha “protetto” Biden dal primo contraccolpo dei risultati delle elezioni di metà mandato, in attesa, come detto, dei risultati definitivi. Tale rivalità, rimasta per mesi sottotraccia ed esplosa alla vigilia delle urne, ha offerto un argomento utile ai Democratici per sviare l’attenzione dai risultati negativi dell’attuale presidenza, che non è mai riuscita a risollevarsi dalla crisi di consensi in cui si è avvitata dopo il disastroso ritiro dall’Afghanistan nell’agosto 2021. Biden, nel commentare i risultati elettorali, ha fatto intendere che è pronto a ricandidarsi nel 2024, ma si trattava di un passo obbligato per evitare un suicidio immediato per la sua amministrazione. Di fatto, nel campo democratico nessuno crede ad un suo secondo mandato.
Sul versante opposto, DeSantis, è vero, potrebbe rappresentare, un giorno, il futuro del partito repubblicano. Ma resta il fatto che il raggio d’azione del partito, oggi, è ipotecato da Trump. Il governatore della Florida ha ottenuto un’indubbia affermazione personale, al punto che il suo Stato può essere depennato dalla lista di quelli tradizionalmente “in bilico” (le famigerate elezioni del 2000 e la conseguente battaglia giudiziaria tra Bush jr. e Gore, che proprio in Florida ebbe l’epicentro, sembrano oggi un lontano ricordo) ed inserito in quelli a maggioranza repubblicana.
Indicare, però, Trump come il grande sconfitto di questa tornata elettorale è affrettato. Innanzitutto, è inusuale che le elezioni di metà mandato possano diventare una sorta di “referendum” non tanto sul Presidente in carica, quanto su un ex Presidente. Trump ha incarnato, nell’ultimo biennio, il ruolo di leader extraparlamentare dell’opposizione (o quantomeno di parte dell’opposizione), figura che non era presente, fino a qualche anno fa, nel panorama istituzionale e politico degli Stati Uniti. Tale figura è stata creata e incarnata per la prima volta da Obama, proprio durante la presidenza Trump, quando i democratici si trovarono nella necessità di trovare un punto di riferimento dopo l’inaspettata e mai metabolizzata sconfitta di Hillary Clinton.
Battuto a sua volta alle presidenziali del 2020, Trump, lungi dal ritirarsi a vita privata, come fece ad esempio Carter, si è dedicato all’obiettivo di utilizzare queste elezioni di metà mandato per costruire una “propria” rappresentanza parlamentare, da utilizzare come base per una rivincita nel 2024. Certo, il piano ha subito delle sonore battute di arresto, come la sconfitta del candidato voluto da Trump per il seggio senatoriale della Pennsylvania. Ma è indubbio che l’ex presidente sia, nel complesso, riuscito nel suo intento, anche privilegiando, a volte, la lealtà dei candidati rispetto alla qualità. Il dato di fatto è che, ora, nel Congresso siedono numerosi eletti che sono formalmente Repubblicani, ma, soprattutto, si professano esplicitamente quali esponenti del “movimento” di Trump. Dei dieci Repubblicani che votarono a favore del suo impeachment nel 2020 alla Camera dei Rappresentanti, ne rimarranno al massimo due (gli altri si sono tutti ritirati o sono stati sconfitti alle primarie). Secondo il Washington Post, almeno 145 Repubblicani che sono stati eletti alla Camera dei Rappresentanti (più di metà del gruppo, quindi) sono election deniers, cioè contestano la legittimità dell’elezione di Biden. Ed anche se non vale nulla ai fini elettorali – contano i risultati dei singoli collegi – ma è argomento che torna ciclicamente in auge in occasione delle elezioni presidenziali, in questa tornata i Repubblicani hanno vinto alla Camera dei Rappresentanti il “voto popolare”, superando i Democratici di quasi sei milioni di voti.
La leadership repubblicana in vista delle elezioni presidenziali del 2024 sarà decisa dal meccanismo privilegiato della politica Usa, ovvero le primarie. Nel 2016 Trump le vinse a sorpresa, con un budget inferiore rispetto ai suoi rivali, inizialmente deriso da tutti gli esperti, ma poi sbaragliando tutti i contendenti, alcuni dei quali ritenuti molto autorevoli (i vari Jeb Bush, Ted Cruz, Marco Rubio, etc.). Se deciderà di ricandidarsi e se la magistratura non lo metterà in “fuorigioco”, partirà da una posizione nettamente più forte. Ha maggiore esperienza, ha raccolto ingenti finanziamenti elettorali, e, soprattutto, ha chiari alleati nel panorama politico che, nel 2016, da puro outsider, semplicemente non aveva.
È paradossale che le speranze degli oppositori di Trump – interni ed esterni al partito repubblicano – siano riposte in DeSantis, che su molte posizioni gli è del tutto sovrapponibile. C’è da chiedersi perché gli elettori dovrebbero preferire la copia all’originale. Inoltre, il caloroso abbraccio riservatogli in queste ore dall’establishment mediatico potrebbe addirittura nuocere al governatore della Florida, perché potrebbe alienargli le simpatie dell’elettorato populista, che è numeroso ed è la base del consenso di Trump.
Dopo queste elezioni di metà mandato il quadro politico appare, in realtà, sostanzialmente “bloccato” su quello delle presidenziali del 2020. Si contrappongono ancora le medesime opposte visioni del mondo, e non sembra emergere una chiara esigenza di rinnovare gli attori protagonisti. Questi ultimi, dal canto loro, non mostrano l’intenzione di farsi da parte spontaneamente. Biden prefigura una propria ricandidatura, anche se è un’anatra mezza zoppa. E Trump ha consolidato la propria posizione nel partito repubblicano, che deve ora riuscire a incanalare nelle primarie le proprie tensioni interne.
L’avvocato Mattia Magrassi è presidente del LiMes Club di Verona